Budino di riso alla fiorentina

Lo so che ci saranno polemiche e rivendicazioni sin dal titolo. Perché il budino di riso, in origine, non è mica fiorentino. Il cosiddetto budinone di riso, di cui ha scritto con appassionata nostalgia la mia Patty , è tipico di Siena.
Nell’originale, supponendo che sia tale quello descritto da Giovanni Righi Parenti, non ci sono gusci di pasta frolla, ma un’unica grande torta, fatta con riso cotto nel latte aromatizzato con scorze d’agrumi, uova, canditi e frutta secca, versione molto simile a quella dell’Artusi, dove mancano i canditi e ci sono mandorle pestate finemente.

Quando avevo 11-12 anni, per un periodo mia mamma aveva preso l’abitudine di fare questa torta di riso, ma racchiusa da un guscio di pasta frolla. Al babbo piaceva moltissimo, e anche a me: sostanziosa, dolce, profumata. Una fetta di quella (e non era mai una) equivaleva ad un pasto.

Quando mi sono trasferita a Firenze, sentivo parlare di colazioni al bar a base di budini di riso, e non capivo. Non solo trovavo curioso mangiare un budino insieme al cappuccino, ma, soprattutto, nei banconi dei bar non vedevo nulla che potesse essere associato a questo nome.
Infine, ho capito che i budini di riso non sono altro che monoporzioni della torta di riso della mia infanzia, ma vestiti di un nome improprio, con il quale ormai li associo alla città di Firenze.
Si trovano essenzialmente di due forme: circolari e bassini, come li ho fatti io, o ovali e più alti, che mi piacciono molto di più a vedersi, ma non sono stata abbastanza tempestiva nel procurarmi lo stampo.

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Una variante che ho trovato recentemente sulla Cucina Italiana suggerisce di aggiungere crema pasticcera al riso cotto, e prima o poi la proverò, ma per la prima volta volevo attenermi alla ricetta di base.

Ho seguito le indicazioni di Giulia, una garanzia quando si parla di ricette toscane, e ho aggiunto nel ripieno anche un po’ di lievito, che ha fatto gonfiare bene bene il riso. Non credo sia una pratica ortodossa, se decidete di farli senza avrete forse un ripieno appena meno soffice e dovrete metterne un po’ di più dentro ai gusci.

Questa ricetta è stata pensata per la Giornata Nazionale della Torta di riso dolce e salata, di cui è ambasciatrice al dolcissima Laura, che con la sua grazia (e le sue foto) illumina chi le sta intorno.

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BUDINI DI RISO ALLA FIORENTINA

Porzioni: 14-16 budini       Tempo di preparazione: 30′       Tempo di cottura: 25′ + 35′

Ingredienti

per la frolla

  • 300 g di farina oo
  • 150 g di burro freddo a tocchetti
  • 85 g di zucchero a velo
  • 1 uovo e 2 tuorli
  • scorza di un limone non trattato
  • un pizzico di sale

per il ripieno

  • 650 ml di latte intero
  • 150 g di riso originario
  • 1 uovo grande
  • 80 g di zucchero
  • 30 g di burro
  • scorza di un’arancia non trattata
  • mezza bacca di vaniglia
  • 1/2 bustina di lievito in polvere
  • un pizzico di sale

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Procedimento

Preparate le frolla qualche ora prima (anche un giorno intero). Sfregate il burro e la farina tra la punta delle dita, come se contaste i soldi, senza mai premere nè schiacciare per non surriscaldare il burro. Dovete ottenere un composto sfarinato, dove non ci siano grumi di burro. Questa procedura fa sì che la frolla rimanga croccante, poiché non permette al glutine di svilupparsi. Per velocizzare, potete usare l’impastatrice con il gancio a foglia. Sbattete leggermente le uova con lo zucchero a velo, il sale e la scorza di limone grattugiata. Versate al centro del composto di farina e, con una spatola, mescolate il tutto, riportando la farina sopra ai liquidi fino a quando non saranno stati tutti assorbiti (per me è stato rivelatore questo post). E’ importante lavorarla poco e velocemente, e possibilmente senza mai il contatto diretto delle mani, per il motivo di cui sopra. Una volta che l’impasto è omogeneo, formate una palla, appiattitela, avvolgetela nella pellicola alimentare e mettete in frigo per alcune ore.

Scaldate il latte con la scorza di arancia e i semi ricavati dal baccello di vaniglia. Quando spunta il bollore mettete un pizzico di sale e poi il riso. Cuocete a fiamma moderata per circa 25′, mescolando di frequente per non far attaccare il riso. Deve essere cotto ma non spappolato e aver assorbito quasi tutto il latte, restando tuttavia abbastanza lento e cremoso: considerate che con il raffreddamento e il passaggio in forno si asciugherà molto. Spegnete il fuoco, unite lo zucchero e il burro, mescolate e fate raffreddare.

Stendete la frolla allo spessore di 4-5 mm e rivestite degli stampini da muffin. Io ho tagliato dei dischi di pasta del diametro maggiore della base degli stampi e poi ve li ho sistemati premendoli con le dita, ma il risultato non mi ha soddisfatta. La procedura migliore è ritagliare un disco grande quanto la base dello stampo, sistemarlo sul fondo e poi ritagliare strisce di pasta per fare le pareti.

Una volta rivestiti gli stampini unite il lievito e il tuorlo alla crema di riso, montate l’albume a neve ferma e aggiungetelo al resto. Riempite gli stampini poco al di sotto del bordo e cuocete a 180°C per 30′ circa, fino a quando la frolla non inizia a dorarsi. Far raffreddare, sformare, cospargere di zucchero a velo e servire.

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Note:

  • io ho usato degli stampini in silicone ma il risultato non mi è piaciuto: non si riesce ad ottenere una buona coloritura della pasta, che rimane sempre bianchina, e secondo me rilasciano anche un sapore poco gradevole. La prossima volta userò quelli in alluminio antiaderente, e mi sa che quelli in silicone faranno una brutta fine.
  • ho anche sperimentato una precottura in bianco del guscio di frolla, ma sono giunta alla conclusione che preferisco cuocere tutto insieme. Meno problemi, e mi piace che la crema di “fonda” leggermente con la basa di frolla.
  • infine, rispetto a quelli che si vedono nei bar, i miei budini sono forse troppo bassi. O forse sono io che non sono mai contenta.

La cucina di Carloforte: una enclave ligure nel mare sardo

Inizia oggi la Settimana della Cucina di frontiera del Calendario del Cibo Italiano AIFB (ne è ambasciatrice la mia mademoiselle preferita) e io vi racconto una storia curiosa e affascinante: quella del paese di Carloforte.

Ammetterete che arrivare in una piccola isola sarda e avere l’impressione di essere a Genova – per la lingua, per la cucina, per le tradizioni – ha dell’incredibile.

Tutto ebbe inizio nel 1542, quando un gruppo di pescatori di Pegli (ai tempi un piccolo paese autonomo, oggi quartiere della città di Genova) si trasferì nell’isolotto di Tabarka nei pressi di Tunisi, dove dette vita ad una comunità dedita alla pesca dei coralli e al commercio di spezie e stoffe pregiate in tutto il Mediterraneo.
Col passare dei secoli, il corallo divenne sempre più raro e le relazioni con i rais locali più difficoltose; per questo, nel 1738, una parte dei Tabarchini chiese al re Carlo Emanuele III di Savoia di potersi stabilire in un punto della Sardegna da dove poter proseguire le loro attività commerciali.
Venne loro concessa l’isola di San Pietro, al largo della penisola del Sulcis (sud-ovest della costa sarda), dove alla comunità proveniente da Tabarka si unirono famiglie dalla Liguria. Nella piccola isola si ricreò così una enclave culturale e linguistica ligure, e più precisamente genovese, raccolta nell’unico centro abitato di Carloforte.

Ancora oggi la comunità tabarchina di Carloforte usa un idioma molto simile al dialetto genovese e che fa parte del Genoise d’Otre Mer, ossia la lingua che era parlata dagli abitanti della Repubblica Genovese trasferitisi oltremare e che pertanto ritroviamo anche in Turchia, Francia, Spagna e Sicilia.

Come la lingua, anche la cucina porta i segni di una identità ancora viva e i piatti tipici di Carloforte sono incredibilmente vicini a quelli che si trovano nel genovese, anche se con adattamenti dovuti alle differenti risorse alimentari dell’isola e con le aggiunte derivate dai secoli trascorsi in Tunisia e dalle influenze mediterranee.
Il pesce domina incontrastato, in particolare il tonno, del quale vengono usate e cucinate tutte le parti, dall’esofago allo stomaco, passando per il cuore e i fegatelli.
Ma il richiamo fortissimo alla madrepatria è nel pesto, nelle focacce, nella farinata di ceci (fainè), nella cappunadda, oggi una ricca insalata a base di tonno, cipolla e olive, ma nata come piatto poverissimo dei marinari, che ammollavano in acqua di mare le gallette di pane e le condivano con olio, aceto e pomodori.
E ancora, se vogliamo parlare di primi, ritroviamo i curzetti (dischetti di pasta fresca), le trofie, i pansoti, i raiö (ravioli).
E poi c’è il cous cous (che nell’isola chiamano cascà), preziosa eredità dell’isola di Tabarka, e che da Carloforte arrivò anche nella terraferma ligure.

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Io ho scelto una ricetta che trovo molto semplice e al tempo stesso originale, perché le fave secche, oggi, si usano davvero poco. Il nome è davvero infelice – bobba – e inevitabilmente richiama un piatto acquoso e insipido. Si tratta invece di una zuppa densa e cremosa di fave, aromatica, da servire con pane tostato e condito che la rende saporita e sostanziosa. Non si discosta molto dal macco di fave siciliano (inserito anche nei prodotti agroalimentari tipici), ad ulteriore conferma della grande permeabilità culturale dei Paesi affacciati sul Mediterrano: con le merci e le persone circolavano nozioni, tecniche e cultura, anche quella gastronomica.

Le ricette della zuppa di fave che si trovano in rete variano leggermente, c’è chi usa molti tipi di verdure, chi si limita alle zucchine, chi vi aggiunge una carota. Molti mettono le fave direttamente a bollire, mentre io ho preferito fare un leggero soffritto di scalogno per rendere il tutto più saporito: di fatto mi sono affidata a Mapi, che è la prima da cui avevo visto questa ricetta è che l’ha tratta da La cucina dei tabarchini di Sergio Rossi. Mi sembra una garanzia più che sufficiente.

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BOBBA – ZUPPA DI FAVE SECCHE

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 5 minuti       Tempo di cottura: circa 3 ore

Ingredienti

  • 250 g di fave secche decorticate
  • 200 g di zucchine
  • 1 scalogno
  • olio extravergine di oliva
  • maggiorana
  • 10 foglie di basilico
  • origano
  • sale
  • 4 fette di pane casereccio

Procedimento

La notte precedente, mettete in ammollo le fave in abbondante acqua fredda.
Al mattino, affettate sottilmente lo scalogno e stufateoa in 3 cucchiai di olio evo.
Scolate le fave e unitele alla cipolla, facendo soffriggere un paio di minuti. Aggiungete delle foglioline di maggiorana, le zucchine tagliate a pezzetti, salate e coprite con acqua calda. Portate ad ebollizione e fate cuocere a fuoco lento per circa 3 ore, fino a quando le fave non saranno completamente disfatte.
Spegnete il fuoco, unite il basilico e fate riposare. Per fare prima potete usare la pentola a pressione, nel qual caso dovrebbe bastare un’oretta.
Tostate il pane, conditelo con olio e maggiorana e servitelo con la zuppa.

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Torta margherita con crema di yogurt e fragole

Niente di meglio di una domenica di aprile per festeggiare la Torta Margherita! Oggi è la Giornata Nazionale dedicata a questo dolce della tradizione italiana, secondo il Calendario del Cibo Italiano promosso dall’Associazione Italiana Food Blogger e l’ambasciatrice è Sara, del blog Dolcizie.

La torta margherita prende questo nome – probabilmente – perché una volta cosparsa di zucchero a velo e tagliata a spicchi ricorda visivamente il bianco e il giallo di questo fiore, come se ogni fetta fosse un petalo. E, come la margherita, è semplice ed essenziale.

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Nato come dolce povero, non molto dissimile dal pan di spagna, la torta margherita si è nel tempo arricchita di burro (o olio), il che la fa classificare tra le masse montate pesanti. Le torte che rientrano in questa categoria sono poco battute, hanno struttura alveolare molto fitta e una quantità importante di materia grassa, alla quale viene talvolta aggiunta frutta secca in polvere o pasta di mandorle. Anche per questo, a volte, viene usato del lievito, sebbene la ricetta originale non lo preveda: per aumentarne la leggerezza.

Dal punto di vista chimico, montare le uova per lungo tempo permette la formazione di minuscole bolle d’aria, che si traducono in un aumento di volume. Viene poi aggiunta la farina e si passa alla fase di cottura. Con il calore, gli alveoli d’aria aumentano di volume, producendo il rigonfiamento della torta. Via via che il calore penetra all’interno della massa, fa coagulare le uova così che la torta acquista struttura più solida e può mantenere il volume acquisito senza collassare.

La torta margherita è molto buona anche da sola, come dolce da colazione, ma data la stagione ho pensato di farcirla con fragole e una crema fresca e non troppo pesante. Così, è diventato un ottimo dolce pasquale alternativo alla colomba.

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TORTA MARGHERITA CON CREMA DI YOGURT E FRAGOLE

Porzioni: 8-10      Tempo di preparazione: 40 minuti       Tempo di cottura: 30 minuti

Ingredienti

Per la torta margherita

  • 165 g di uova (circa 3)
  • 130 g di tuorli (circa 6)
  • 130 g di zucchero
  • 125 g di farina 00
  • 80 g di fecola di patate
  • 80 g di burro fuso
  • scorza grattugiata di 1 limone
  • semi di mezza bacca di vaniglia
  • un pizzico di sale

Per la farcitura

  • 250 ml di panna fresca
  • 250 g di yogurt greco
  • 8 g di colla di pesce
  • 130 g di zucchero a velo
  • 500 g di fragole
  • succo di fragole o sciroppo di zucchero q.b.
  • zucchero a velo q.b.
  • scaglie di cioccolato bianco

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Procedimento

Unite lo zucchero, il miele, le uova (lasciando da parte i tuorli) e la scorza di limone. Riscaldate fino a 45-50°C, poi montate con le fruste o la planetaria per 15 minuti almeno; a metà montaggio, unite i tuorli a filo e continuate fino ad avere una massa voluminosa e stabile.
Setacciate la farina con la fecola, il sale e i semi di vaniglia, poi unite delicatamente al composto di uova con una spatola. Prelevate 1/10 del composto e inseritevi il burro fuso tiepido (45-50°C), poi unire al resto, mescolare e versare in uno stampo a cerniera da 22 cm di diametro, che avrete precedentemente imburrato.
Cuocete a 180°C nel forno statico. Dopo i primi 10 minuti inserite il manico di un mestolo nello sportello del forno, così da tenerlo socchiuso e proseguite la cottura per 20 minuti circa. La torta sarà pronta quando, se premuta leggermente con il polpastrello, oppone una certa resistenza e non torna indietro.
Una volta tolta dal forno, sformatela appena possibile e poggiatela su carta forno cosparsa di zucchero per non farla attaccare. Fate raffreddare per alcune ore, poi dividetela a metà con un coltello seghettato.

Mettete la gelatina a bagno in acqua fredda per 10 minuti. Scaldate leggermente 2 cucchiai di yogurt, aggiungete la gelatina strizzata, mescolate per farla sciogliere e unite al resto dello yogurt. Montate la panna ben ferma insieme allo zucchero a velo, unite allo yogurt e conservate in frigo fino al momento dell’uso. Mondate le fragole, tagliatele a pezzetti (ma tenetene da parte alcune per la decorazione finale) e unitele alla crema di yogurt.

Inumidite la superficie della metà inferiore della torta con pochissimo succo di frutta (o con uno sciroppo fatto facendo bollire acqua e poco zucchero), poi distribuite uno strato di crema e chiudete con l’altra metà di torta. Spolverate di zucchero a velo e guarnite con fragole fresche e scaglie di cioccolato bianco.

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Note:

  • prima di tagliare a metà la torta, con un coltello piccolo e seghettato, ho tagliato via tutta la crosticina che si forma normalmente sulla superficie e sui bordi, laddove il calore arriva diretto (reazione di Maillard). Così ho ottenuto che si vedesse l’interno della torta, bello giallo come deve essere.
  • suggerisco di farcirla qualche ora prima (o anche un giorno), così che i sapori si amalgamino bene e al momento dell’assaggio torta e farcia siano…inscindibili!

Bibliografia:

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