Burger di palamita per Un mare di gusto

Strano effetto, tornare a desiderare il mare.
Solo un poco, magari fuori stagione, sicuramente sotto l’ombra di una pineta.
Ma un po’ ci penso.

Per anni ne sono stata lontana, l’ho solo intravisto e senza grandi emozioni; mi sembra di sentire i cori di indignazione che si levano da più parti a questa affermazione.
E pensare che da bambina mi sembrava quasi un habitat naturale, condividevo la grandezza del suo mistero in una comunione inconsapevole. In quella spiaggia sabbiosa, calpestata per tanti anni di fila, risiede il mio paradiso perduto; nella grande casa umida, i ricordi più felici.

Anche negli anni ingrati dell’adolescenza traevo dal mare conforto, nelle sue acque mi sentivo accolta e si smorzavano le paure di vivere.
Poi l’attrazione è andata scemando, fino ad scomparire del tutto.
O forse, ad assopirsi.
Perché adesso si riaffaccia, mi stuzzica. E io la osservo, curiosa di come evolverà, se davvero sarà in grado di riportarmi sulle rive salate o se tornerà in letargo per altri anni ancora.
Nel frattempo, sogno.

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Parte di questo risveglio è dovuto anche a Cristina e alle suggestioni che Un mare di gusto ha suscitato in me.
Un mare fuori stagione, appunto, respirato prima che arrivi la folla estiva.
Una manifestazione in cui si parla del pesce del nostro mare e del modo migliore per valorizzarlo, con una grande chef come Debora Corsi.
Una località – San Vincenzo – alla quale è legato un bel ricordo.
E la voglia di mare che, titubante, fa capolino.

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La palamita è un pesce azzurro della famiglia dei tonni e degli sgombri; quella del mare di Toscana è stata decretata presidio Slow Food. A breve inizierà la sua stagione, perché si pesca tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate ed è tipica dell’Arcipelago Toscano. Ha colore grigio metallizzato tendente al blu ed è caratterizzato da striature nerastre che ne segnano obliquamente il corpo.
Ha carni sode e gustose, con una punta di acidità, che si prestano a moltissime preparazioni. Ricordo di averla assaggiata una volta sott’olio: si dice sia il modo migliore per gustarla ed effettivamente rimasi sorpresa dal gusto incrdibile e dalla morbidezza delle sue carni.
Io ne ho acquistata una intera in pescheria, costa davvero poco e si può usare in tanti modi. Ne ho ricavato dei filetti che ho in parte surgelato e in parte usato per questi burger, ma è ottima anche a tranci, appena scottata sulla piastra. Si consuma anche cruda, ma in questo caso deve assolutamente essere tenuta in abbattitore per un paio di giorni o nel surgelatore di casa per una settimana per scongiurare il rischio del batterio Anisakis (qui trovate tutte le indicazioni in merito).

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BURGER DI PALAMITA

Porzioni: 10-12 mini burger        Tempo di preparazione: 1 h e 30′ + 3 h di lievitazione per i panini       Tempo di cottura: 15′ + 15′ + 15′

Ingredienti

Per i burger

  • 400 g di palamita sfilettata
  • succo di arancia
  • 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva
  • senape in grani (moutard en grains à l’ancienne)
  • sale e pepe

Per la crema di piselli

  • 250 g di piselli surgelati
  • 1 -2 cucchiai di yogurt greco
  • 3 cipollotti
  • 2 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • sale

Per i panini

  • 125 g di farina 00
  • 125 g di farina manitoba
  • 140 ml di latte
  • 25 g di burro
  • 5 g di lievito di birra fresco
  • 10 g di zucchero
  • 5 g di sale
  • 1 cucchiaino di miele
  • 1 tuorlo
  • 1 cucchiaio di latte
  • semi di lino

Per completare

  • senape in grani (moutard en grains à l’ancienne)
  • songino e radicchio rosso
  • aceto balsamico

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Procedimento

Per i panini

Intiepidite il latte, scioglieteci il lievito con il miele e fate riposare 10 minuti.
Setacciate la farine, fate una fontana e versatevi il latte amalgamando con un cucchiaio di legno. Unite il burro e lo strutto ammorbiditi, poi il sale e lo zucchero e impastate per circa 10 minuti, finchè non sarà liscio ed elastico. Coprite con la pellicola e fate lievitare dentro al forno spento fino al raddoppio (per me un’ora e mezzo).

Trascorso questo tempo prendete l’impasto, posatelo sulla spianatoia e sgonfiatelo premendolo leggermente con le mani. Dovete dargli la forma di un rettangolo ma senza schiacciarlo troppo.
Adesso praticate le “pieghe“: dividetelo idealmente il rettangolo in tre lembi e portate quello di destra verso il centro, poi quello di sinistra a sovrapporsi a quello di destra. Ruotate di 90° e ripetete l’operazione. Se non mi fossi spiegata bene, vi suggerisco questo brevissimo video…è molto più facile a farsi che a dirsi! Fate riposare così l’impasto per mezz’ora, coperto da un panno e con la parte della piega verso il basso.

Per la foggiatura dei panini vi suggerisco quest’altro brevissimo video, che vi aiuterà a dargli la forma rotonda tipica dei buns. Dividete l’impasto in 10 parti (per avere dei panini di circa 35 g) e formate un panino alla volta. Disponeteli su una placca ricoperta di carta forno e fate riposare mezz’ora coperti da un panno.

Per la finitura, sbattete il tuorlo e il latte con una forchetta e spennellate la superficie dei panini subito prima di infornarli, poi cospargeteli di semi di lino (o quelli che avrete scelto). Cuocete a 180° nel forno statico per 18-20 minuti circa.

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Per la crema di piselli

Affettate finemente i cipollotti e fateli soffriggere nell’olio evo per 10 minuti circa, fino a che non diventano trasparenti. Unite i piselli, salate e cuocete coperto per 15 minuti circa, unendo acqua solo se si asciugano troppo. Frullate con il frullatore ad immersione, unendo un po’ di yogurt greco fino a raggiungere la morbidezza desiderata.

Per i burger

Tagliate a dadini la polpa di palamita, poi battete brevemente con il coltello. Mescolate con il succo d’arancia e un cucchiaino di senape, condite con sale e pepe, coprite con pellicola e mettete a marinare in frigo per alcune ore.

Trascorso il tempo di marinatura, il pesce dovrebbe aver assorbito il succo di arancia. Se vi fossero liquidi residui, scolatelo, poi formate dei mini burger (prendete le dimensioni in base ai panini) e cuoceteli due o tre per volta su una padella antiaderente, senza grassi e a fuoco medio. L’ideale sarebbe formare i burger in dei coppapasta di metallo ma io non li avevo di un diametro così piccolo, così ho ovviato con del semplice alluminio. Ne ho tagliato un foglio, l’ho ripiegato su se stesso fino a formare una striscia alta 3-4 cm, e l’ho arrotolata a formare un cilindro. L’ho appoggiata sulla padella già calda e poi l’ho riempita con il pesce, rimuovendola non appena il burger aveva preso forma. Ho fatto cuocere i burger per circa 3-4 minuti per lato. Se vi sembra che si secchino troppo potate coprirli con un coperchio dopo il primo minuto.

Assemblaggio

Aprite i panini a metà e scaldateli brevemente su una padella antiaderente dalla parte del taglio. Spalmate le due metà con poca senape, distribuite la crema di piselli sulla base, poi il burger caldo, qualche goccia di aceto balsamico, l’insalata e infine chiudete con la metà superiore del panino.

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Con questa ricetta partecipo al contest Palamita ad Arte ospitato dal blog Poveri ma belli e buoni

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Tegamaccio, zuppa di pesce del lago di Chiusi

Altro giro altra corsa sul treno MTC! Questo mese la sfida è stata lanciata da un donna che fatico ad immaginare come una partecipante, perché è chiaro che si tratta di una maestra: Nostra Signora dei Food Blogger Anna Maria Pellegrino.
E signora lo è davvero, in tutto quello che fa. La soggezione, quindi, è ancora maggiore del solito; per farmi coraggio, sono tornata a casa e mi sono rifugiata in una ricetta della tradizione.


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Il tema è il brodetto di pesce, o una zuppa, e si sa che con il pesce io ho poca dimestichezza. Lanciarmi in una ricetta sperimentale senza avere alcuna preparazione di base mi sembrava illogico e presuntuoso, per cui mi sono affidata alla sapienza antica del mio territorio: ne è uscita una bella occasione per mettermi alla prova, e per approfondire un piatto che ho sempre sentito nominare ma – fino ad oggi – mai assaggiato, né tanto meno preparato.

Anna Maria ci ha proposto il brodetto dell’Adriatico, descrivendolo come solo lei sa fare (non è una sviolinata eeeeh!): condito con storia antica e recente, evoluzioni subite nel corso del tempo, spiegazioni dettagliate e attenzione agli ingredienti, che mentre uno legge pensa “ma dai!”, e più legge più si meraviglia di quante cose non sa e alla fine si sente piccino picciò. Ma è dai grandi che si impara, no?

Io ho scelto il tegamaccio, una zuppa di pesce tipica del lago di Chiusi e del più noto Trasimeno.
Giovanni Righi Parenti, ne La Cucina Toscana, dice che tutti i pesci vanno bene, ma ce ne vogliono almeno un paio tra luccio, carpa, tinca e anguilla, e che se l’anguilla è abbondante la zuppa risulta particolarmente saporita. In assenza della tinca, che ormai è diventata piuttosto rara, noi abbiamo messo un persico reale, tipico di queste acque.
E’ una zuppa che ormai potete trovare in pochissimi ristoranti e alla sagra annuale che si tiene ad agosto in una piccola frazione di Castiglion del Lago (Porto), ma che in passato doveva essere molto popolare, anche perché non richiede pesce particolarmente pregiato, ma si può fare con quello che si pescava in giornata.

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In una bella domenica mattina di marzo, così, sono tornata tra le mie colline e mi sono cimentata nella preparazione. Il babbo mi aveva procurato il pesce necessario da un amico pescatore e la mamma lo aveva già pulito tutto (grazie mammina mia!). Senza di loro, dunque, questa ricetta non si sarebbe fatta; e a me è rimasta la parte divertente.

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La ricetta tradizionale, che deve essere cucinata in un tegame di coccio, prevede di mettere le teste direttamente insieme al resto del pesce, ma ognuno ha la propria variante: c’è chi non le usa affatto e chi le tosta velocemente nel soffritto per poi schiacciarle ed eliminarle. Io ho deciso di usare le teste per preparare un fumetto con il quale bagnare il tegamaccio durante la cottura.

Una pentola di coccio sufficientemente grande a casa mia non c’era e abbiamo dovuto ovviare con una in alluminio. Caratteristica del tegamaccio è che non deve essere mai mescolato per non rischiare che il pesce si disfi; durante la cottura basterà roteare delicatamente il tegame tenendolo per i manici.

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Nessuno di noi lo aveva mai preparato, quindi ci siamo consultati un po’ per decidere come fare e poi mi sono messa all’opera. Superate le incertezze lungo il cammino, i piccoli inconvenienti e le scaramucce che sapevo inevitabili nel momento cui condivido la cucina con qualcun’altro, alla fine abbiamo portato a termine il compito.

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Il risultato ci ha pienamente soddisfatto, anche se secondo loro dovevo aggiungere più olio (strano); anche per questo ho indicato una dose piuttosto generosa. Il tegamaccio era buonissimo e il magiare con i miei genitori qualcosa che abbiamo preparato insieme è stato molto  bello, nonostante i “potevamo mettere meno vino” o “doveva ritirarsi un po’ di meno”…se non ci fossero tutte queste osservazioni su quello che mangiamo non saremmo noi!
La degna conclusione è stata una bella passeggiata fatta con mia mamma, fino a quel lago tanto amato, che porto sempre nel cuore.

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Anna Maria ci ha fatto anche le richiesta di parlare di un momento particolare delle nostre vite, quando il cibo ha fatto la differenza. Ci ho pensato a lungo, ma non sono stata in grado di isolare un episodio specifico. Forse perché raccontarmi ancora più a fondo di quanto non ho fatto in questi anni di blog. O piuttosto, a pensarci bene, perché il cibo per me fa sempre la differenza: non riesco a ricordare momenti in cui non sia stato un  protagonista della mia vita, nel bene e nel male, e non riesco a scegliere un singolo episodio.
Quel che mi sento di dire è che sono felice di aver scelto questa ricetta perché, al pari del brustico, è un piatto che parla del mio lago, di quanto sia stato importate nel passato, non solo per le risorse alimentari che poteva offrire, ma anche per le attività artigianali che si svolgevano sulle sue rive. Oggi è vissuto da molti come un elemento marginale e accessorio, è perduta la cognizione di quanto abbia caratterizzato l’esistenza dei nostri nonni e bisnonni e molti prima di loro. Ma la sua bellezza, la quiete che vi si respira, quella non si può dimenticare, ed è la calamita che mi richiama alle sue rive non appena torno a casa.

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TEGAMACCIO

Porzioni: 6       Tempo di preparazione: 1 h       Tempo di cottura: 1 h circa + 1 h 30′ per il fumetto

Ingredienti

  • 1 carpa regina (circa 1,5 kg)
  • 1 luccio (circa 1 kg)
  • 2 anguille
  • 1 piccolo persico reale (circa 400 g)
  • 1 cipolla rossa grande
  • 3 spicchi d’aglio + 1
  • 200 ml di olio extravergine di oliva
  • 1 bicchiere di vino bianco
  • circa 1 kg di pomodori pelati (va bene anche la passata)
  • 1 carota
  • 1 costa di sedano
  • pepe nero in grani
  • peperoncino in polvere
  • sale e pepe
  • pane casereccio

Procedimento

Lavate, squamate ed eviscerate i pesci. Staccate le teste e tenetele da parte, tagliate il corpo dei pesci a pezzi piuttosto grandi. Fate un soffritto con poca cipolla e olio evo, poi aggiungete le teste ben lavate, fate tostare qualche minuto, coprite con abbondante acqua fredda, aggiungete la carota, il sedano e qualche grano di pepe nero e fate bollire fino a che il liquido non si sarà ridotto della metà. Filtrare, schiacciando bene le teste per ricavarne tutto il succo possibile, e tenete da parte (fumetto).

Tritate l’aglio e il resto della cipolla e fate stufare lentamente con l’olio evo, poi unite i pezzi di pesce, poggiandoli dalla parte della polpa. Fateli rosolare un paio di minuti, girateli delicatamente dall’altro lato e dopo altri due minuti disponeteli con la pelle sul fondo della pentola. Da questo momento non dovrete più girarli. Versate il vino bianco, un po’ di fumetto di pesce e, dopo 5 minuti, i pomodori pelati. Salate, pepate (poco) e fate cuocere una ventina di minuti coperto, poi scoprite, unite il peperoncino e fate cuocere per un’altra mezz’ora almeno. Se si asciugasse troppo potete aggiungere altro fumetto. E’ importante non girare mai il pesce, altrimenti di frantumerà; dovete solo roteare delicatamente la pentola tenendola dai manici. Alla fine deve risultare sugoso ma di un sugo denso, non troppo liquido.

Tostate delle fette di pane casereccio, strusciatele con uno spicchio d’aglio, disponetele sul fondo dei piatti e ricopritele con il pesce e il suo sugo.
Per mangiarlo, ovviamente, servono calma e pazienza, poiché ci sono molte lische: l’ideale per stare a tavola insieme a chiacchierare, senza fretta.
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Note:

  • il tegamaccio di lago non va confuso con l’omonimo piatto a base di maiale, tipico di Prato e del Mugello, e chiamato anche “tegamata”. Questo veniva preparato in occasione dell’uccisione del maiale, con gli scarti e le parti grasse dell’animale, fatte stufare a lungo e cotto con vino rosso, pomodoro e peperoncino.

 

Con questa ricetta partecipo all’MTC n. 55

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Sapori e luoghi di Garfagnana. Tagliatelle di grano saraceno con trota affumicata

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(Segue da qui). 
La Garfagnana è un territorio complesso, che sfida i suoi abitanti con molte difficoltà, ma offre anche tante risorse diversificate, base fondante delle microeconomie sulle quali si regge la regione.
E questo non avviene solo nel settore agricolo e forestale ma anche per attività artigianali che piano piano si stanno facendo strada nel mercato globale, come nel case del birrificio La Petrognola di Piazza al Serchio.blogtour garfagnana-61

Roberto, il titolare, ci illustra le fasi e gli impianti di produzione dove i cereali in chicco vengono macinati e immediatamente utilizzati per ridurre al minimo l’ossidazione. La produzione è molto ampia e a birre più comuni e facili da commercializzare si affiancano birre “speciali”, con luppoli selezionati, che sono destinate ai veri intenditori.

É a queste che Roberto tiene di più – è evidente dal calore e dall’entusiasmo con cui ne parla – ed è una di queste che ci fa assaggiare: la Indian Pale Ale al farro, che lascia tutti di stucco per l’intenso profumo di frutta esotica e il sapore invece piuttosto amaro ma piacevole.collage7

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Un’altra attività artigianale che spicca nel panorama locale è quella del caseificio Marovelli di San Romano di Garfagnana, che da 50 anni produce formaggi con latte vaccino, caprino e ovino. Tra i vari tipi di pecorino cito quello stagionato in foglie di castagno, mentre si differenzia dalle produzioni tradizionali locali il Bagiolo, un formaggio a crosta fiorita che ricorda il francese Brie.

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Tra la visita a La Petrognola e quella caseificio Marovelli, una piacevole diversione. Il pulmino guidato dal fidato Carmine ci porta a Giuncugnano, il Comune più elevato della provincia di Lucca, con i suoi 800 metri di altitudine, dove l’aria è più fresca e il panorama ancora più ampio.

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Qui ci concediamo un pranzo presso lAgriturismo Il Grillo, gestito dal giovane Stefano, che dopo anni di esperienza come chef all’estero ha deciso di scommettere sul suo territorio e gestire il piccolo ristorante legato all’omonima azienda agricola. Ma gli anni di formazione si fanno sentire e la sua non è affatto una cucina casalinga, bensì raffinata quanto basta per valorizzare la tradizione senza snaturarla.
Gustosi e ricercati gli antipasti con insalata di farro, arancini di farro, quiche di cipolle e formaggio su briseè…di farro! É evidente che questo cereale è il motivo ricorrente della gastronomia locale, ma è talmente versatile che non stanca mai e si resta sorpresi da quante declinazioni possa avere. La degustazione prosegue con tagliatelle di farro e ortica condite con ragù di rosmarino e salsiccia e, come dessert, una pastiera in chiave locale, con farro cotto nel latte vaccino e crema pasticciera, completato dalla confettura di lamponi dell’azienda agricola.

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La giornata si conclude con una passeggiata nel piccolo centro storico di Castelnuovo di Garfagnana, e con la cena al ristorante dell’Hotel La Lanterna.

Al risveglio ci accoglie un cielo plumbeo di pioggia ed è evidente che la visita al castagneto, alla quale tenevo tanto, non si farà. Ma Antonella sfodera i suoi assi nella manica e in 10 minuti elabora un programma alternativo di tutto rispetto.

A Gallicano visitiamo lallevamento di trote La jara (che significa ghiaia), lungo il torrente Turrite, al riparo di un alto costone roccioso, al centro del quale è incastonato l’eremo di Calomini.

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Uno dei fratelli Lorenzi, i proprietari, ci illustra come avviene la riproduzione delle trote in natura e in che modo viene effettuata nell’allevamento, dove si pratica anche l’affumicatura con i legni aromatici della foresta soprastante.
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Fino a pochi anni fa le trote venivano allevate solo per rifornire i laghetti di pesca sportiva e la tendenza era quindi di farle crescere rapidamente, nutrendole in maniera massiccia.
Di recente, invece, la produzione è stata convertita a fini alimentari e le trote della Jara arrivano sulle tavole di molti ristoranti locali; adesso i pesci vengono fatti crescere con tempi simili a quelli naturali e nutriti con mangimi a base di farina di pesce: così sono meno stressati e ottimali per il consumo alimentare. Ne abbiamo avuto un assaggio all’Osteria Vecchio Mulino e non ci facciamo scappare l’occasione per acquistarne un po’ in loco.

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Nel frattempo il cielo si è aperto e quando arriviamo a Podere Concori splende il sole.
Gabriele ci racconta la sua storia, di come si sia sottratto ai ritmi frenetici della ristorazione per ritirarsi in questo angolo di Garfagnana a produrre vini biodinamici. Un progetto nel quale nessuno avrebbe scommesso, perché questa terra non ha mai avuto una forte vocazione vitivinicola, figurarsi se si tratta di fare vino senza l’aiuto della chimica. Ma Gabriele ha creduto nel suo territorio ed è riuscito a valorizzarne le potenzialità; ha recuperato 4 ettari di bosco e ne ha ricavato 5 piccoli vigneti, destinando ogni appezzamento al vitigno più adatto in base ad una accurata valutazione del tipo di suolo, della ventilazione e dell’esposizione

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L’entusiasmo e la passione che lo guidano sono palpabili e si trasmettono attraverso il suo sorriso a noi che lo ascoltiamo.
Un altro esempio dello spirito dei garfagnini che rimangono, che amano così tanto la propria terra da non sopportare l’idea di abbandonarla, che trasformano le difficoltà in risorsa e spinta per emergere, che si ricavano una nicchia tutta speciale che gli consente di prosperare ma senza tradire il territorio dove risiedono le loro radici.

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Incredibilmente, tuttavia, dopo tanti esempi di attività appassionate e progetti virtuosi, ce n’è uno che – per me – spicca su tutti. Quello dove il recupero del passato e il rispetto del territorio è portato all’ennesima potenza. Anzi, non di recupero si deve parlare, perché alla Cerasa il ponte con il passato non si è mai interrotto.

Con il nostro pulmino saliamo tra i fitti boschi, saliamo e saliamo lungo una strada strettissima addossata al fianco della montagna, mentre sull’altro versante si apre una scenario maestoso di foreste verdeggianti e valli nascoste. Si respira un’aria di sacralità, di calma sovrana e irreale, come se i mille occhi del genius loci ci osservassero, curiosi, addentrarci nel folto del suo regno.

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Dopo l’ennesima curva, compare una casetta di pietra linda e ordinata, quasi di fiaba, con gerani rossi all’ingresso e un piccolo pergolato su pali di legno. Tutto intorno, quiete e castagni.
La Cerasa, nel Comune di Pieve Fosciana, è un’azienda che vive grazie alla multifunzionalità e alle piccole produzioni diversificate, ma è soprattutto una famiglia. Mario Cavani, il patriarca, ha vissuto tra questi boschi per 40 anni, e con lui la moglie Gemma e la figlia Ombretta.

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A questa altitudine (960 m s.l.m.) e con questa conformazione geografica, non si può vivere di un’unica attività, e allora si sfrutta, con rispetto, tutto quello che offre la natura. Si allevano pecore e si lavora la lana, si producono formaggio, salumi e carne di agnello, si raccolgono le castagne e se ne fa farina (c’è anche la possibilità di adottare un castagno e i suoi frutti), si raccolgono le noci, si fanno confetture. Attività antiche, umili e al tempo stesso nobili, dove la tecnologia è impiegata in minima parte e la differenza la fa la mano dell’uomo.

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Il progetto più importante, però, è il recupero della pecora garfagnina bianca, una razza appenninica a triplice attitudine (latte, lana e carne) che fino agli anni ’50 contava moltissimi esemplari. Negli anni del boom economico, però, molte zone montane furono abbandonate e gran parte delle pecore garfagnine furono sostituite dalle nere massesi, che producono più latte ma mal si adattano a questi climi.
Nel 2004 erano rimasti soltanto 20 esemplari di pecora garfagnina; grazie all’azione congiunta dell’Unione dei Comuni, delle Università di Pisa e Firenze e dell’Associazione Provinciale Allevatori è stata reintrodotta nell’azienda di Cerasa (di proprietà della Regione Toscana), nel suo territorio naturale. Oggi ne esistono più di 1000 capi in tutto il territorio garfagnino.

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La pecora garfagnina è molto rustica, si adatta a brucare ogni tipo di erba e a qualsiasi tipo di terreno; produce meno latte rispetto alla massese ma con una maggiore percentuale di grassi, per cui la resa in termini di formaggio è identica. Ed è un formaggio particolarmente gustoso in virtù delle erbe di cui si nutrono le pecore, che vivono per la maggior parte del tempo su ricchi e profumati pascoli di altura.

La resa quantitativa e la qualità del prodotto (che ha così anche una forte valenza territoriale e identitaria) è un aspetto essenziale perché qualsiasi forma di recupero  – che si tratti di animali, come in questo caso, o di piante, come accade nella banca del germoplasma di Camporgiano – rimane un esercizio sterile se non ha sostenibilità economica. Solo così le azioni intraprese dai singoli e dalle amministrazioni non rimangono fini a se stesse ma hanno ricadute effettive sull’economia del territorio e sulla vita delle persone che lo abitano.
Le scelte politico-amministrative, anche nel piccolo raggio, non sono mai insignificanti, ma hanno il potere di intervenire nella realtà delle cose e darle un indirizzo preciso. E la fortuna della Garfagnana è anche aver trovato amministratori capaci di comprenderla e valorizzarla nelle sue qualità migliori.

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Quando entriamo nella piccola baita di Cerasa è come fare un salto indietro nel tempo. Ricordi di un tempo lontano che ho appena sfiorato, svanito via prima che potessi fissarlo dentro di me. Le cucine calde e semibuie delle nonne di campagna, quando neon e faretti erano di là da venire, le vetrine di legno massiccio che ospitano tazze e piattini con il filo dorato, due pesanti tavoli di legno con una tovaglia a quadretti rossi e bianchi, soffitti bassi e infissi scuri.
Una casa, un rifugio accogliente, una tana. Questo sono le due stanze della Cerasa quando entriamo.
Ci sediamo ai due lunghi tavoli che occupano una stanza, in un’atmosfera calda e conviviale; mangiamo salumi e formaggi fatti da Mario, la pasta al salvietto, che ormai nessuno sa più fare più, e un arrosto misto di agnello, pollo e maiale con patate, tra i più buoni che abbia mai mangiato (e io adoro l’arrosto!).

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Dopo pranzo, la proiezione del cortometraggio pluripremiato “Bianca e gli altri” (potete vederlo qui), di Roberto Giomi e Antonella Giusti, dove si racconta per immagini la vita dei pastori, la transumanza, il meraviglioso Appennino e la sua natura. In poco più di 20 minuti tante immagini bellissime, toccanti e, soprattutto, vere. Lo so per certo, ora che sono stata qui. Inutile parlarne tanto. Guardatelo.

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Il nostro blogtour termina qui, in un luogo di sogno, dove il tempo si è fermato, dove si conoscono ancora il sacrificio, la fatica del lavoro e – di conseguenza – il valore delle cose.

Mi sento un po’ stupida, qui, con il mio smartphone, l’ossessione di essere costantemente connessa e i miei strumenti di modernità, che ora mi appaiono solo gabbie. Qui, dove non c’è linea, non c’è campo, non c’è segnale, capisco quanto si possa essere ancora liberi e cogliere il senso delle cose.
Vivere seguendo il ritmo del sole e delle stagioni, uomini che tornano nel loro ambiente naturale, in una natura niente affatto idilliaca, a volte dura e impietosa, che va plasmata, ma sempre con profondo rispetto.
Sarebbe bello passare del tempo qui. Sarebbe facile ascoltarsi, sentire chi siamo, nel fisico e nell’anima, capire che il senso che cerchiamo di continuo, in fondo, è una cosa semplice a portata di mano.

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N.B.: vorrei ringraziare tutte le persone che hanno contribuito all’organizzazione del blog tour e che ci hanno accolto con tanto entusiasmo e passione: Stefano Bertolini (Agriturismo Il Grillo), Mario, Gemma e Ombretta Cavani (Azienda agricola Cerasa), Gabriele Da Prato (Podere Concori), Paolo Fantoni (presidente Unione dei Comuni), Sandro Fioroni (dirigente Unione dei Comuni), Roberto Giannarelli (birrificio La Petrognola), fratelli Lorenzi (allevamento La Jara), Antonella Poli (responsabile dell’Ufficio Informazione e Accoglienza Turistica Garfagnana), Annarita Rossi (organizzazione blog tour), Andrea Tagliasacchi (sindaco Castelnuovo di Garfagnana), l’Hotel La Lanterna di Castelnuovo di Garfagnana.

TAGLIATELLE DI GRANO SARACENO CON TROTA AFFUMICATA E CREMA DI FINOCCHI

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 15 minuti       Tempo di cottura: 30 minuti

Ingredienti

  • 160 g tagliatelle di semola di grano duro e grano saraceno (della Garfagnana Coop)
  • 60 g trota affumicata (allevamento La Jara)
  • 2 finocchi piccoli (o 1 grande)
  • 80 g cipolla rossa (al netto degli scarti)
  • 3 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • vino bianco q.b.
  • sale

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Procedimento

Affettate finemente la cipolla e scaldatela nell’olio per qualche minuto. Sfumate con poco vino bianco, fate evaporare e unite i finocchi affettati molto sottili. Mescolate un paio di minuti, salate, aggiungete circa mezzo bicchiere d’acqua e fate cuocere coperto finché i finocchi non sono teneri, scoprendo negli ultimi minuti per far evaporare eventuale liquido in eccesso. Frullate e tenete da parte.
Lessate le tagliatelle in abbondante acqua salata e nel frattempo tagliate a listarelle la trota affumicata.
Scolate la pasta al dente, ripassatela in padella con la crema di finocchi (aggiungendo un paio di cucchiai di acqua di cottura se fosse troppo asciutta) e aggiungete la trota 30 secondi prima di spegnere il fuoco. Servite calda.

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