La cucina di Carloforte: una enclave ligure nel mare sardo

Inizia oggi la Settimana della Cucina di frontiera del Calendario del Cibo Italiano AIFB (ne è ambasciatrice la mia mademoiselle preferita) e io vi racconto una storia curiosa e affascinante: quella del paese di Carloforte.

Ammetterete che arrivare in una piccola isola sarda e avere l’impressione di essere a Genova – per la lingua, per la cucina, per le tradizioni – ha dell’incredibile.

Tutto ebbe inizio nel 1542, quando un gruppo di pescatori di Pegli (ai tempi un piccolo paese autonomo, oggi quartiere della città di Genova) si trasferì nell’isolotto di Tabarka nei pressi di Tunisi, dove dette vita ad una comunità dedita alla pesca dei coralli e al commercio di spezie e stoffe pregiate in tutto il Mediterraneo.
Col passare dei secoli, il corallo divenne sempre più raro e le relazioni con i rais locali più difficoltose; per questo, nel 1738, una parte dei Tabarchini chiese al re Carlo Emanuele III di Savoia di potersi stabilire in un punto della Sardegna da dove poter proseguire le loro attività commerciali.
Venne loro concessa l’isola di San Pietro, al largo della penisola del Sulcis (sud-ovest della costa sarda), dove alla comunità proveniente da Tabarka si unirono famiglie dalla Liguria. Nella piccola isola si ricreò così una enclave culturale e linguistica ligure, e più precisamente genovese, raccolta nell’unico centro abitato di Carloforte.

Ancora oggi la comunità tabarchina di Carloforte usa un idioma molto simile al dialetto genovese e che fa parte del Genoise d’Otre Mer, ossia la lingua che era parlata dagli abitanti della Repubblica Genovese trasferitisi oltremare e che pertanto ritroviamo anche in Turchia, Francia, Spagna e Sicilia.

Come la lingua, anche la cucina porta i segni di una identità ancora viva e i piatti tipici di Carloforte sono incredibilmente vicini a quelli che si trovano nel genovese, anche se con adattamenti dovuti alle differenti risorse alimentari dell’isola e con le aggiunte derivate dai secoli trascorsi in Tunisia e dalle influenze mediterranee.
Il pesce domina incontrastato, in particolare il tonno, del quale vengono usate e cucinate tutte le parti, dall’esofago allo stomaco, passando per il cuore e i fegatelli.
Ma il richiamo fortissimo alla madrepatria è nel pesto, nelle focacce, nella farinata di ceci (fainè), nella cappunadda, oggi una ricca insalata a base di tonno, cipolla e olive, ma nata come piatto poverissimo dei marinari, che ammollavano in acqua di mare le gallette di pane e le condivano con olio, aceto e pomodori.
E ancora, se vogliamo parlare di primi, ritroviamo i curzetti (dischetti di pasta fresca), le trofie, i pansoti, i raiö (ravioli).
E poi c’è il cous cous (che nell’isola chiamano cascà), preziosa eredità dell’isola di Tabarka, e che da Carloforte arrivò anche nella terraferma ligure.

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Io ho scelto una ricetta che trovo molto semplice e al tempo stesso originale, perché le fave secche, oggi, si usano davvero poco. Il nome è davvero infelice – bobba – e inevitabilmente richiama un piatto acquoso e insipido. Si tratta invece di una zuppa densa e cremosa di fave, aromatica, da servire con pane tostato e condito che la rende saporita e sostanziosa. Non si discosta molto dal macco di fave siciliano (inserito anche nei prodotti agroalimentari tipici), ad ulteriore conferma della grande permeabilità culturale dei Paesi affacciati sul Mediterrano: con le merci e le persone circolavano nozioni, tecniche e cultura, anche quella gastronomica.

Le ricette della zuppa di fave che si trovano in rete variano leggermente, c’è chi usa molti tipi di verdure, chi si limita alle zucchine, chi vi aggiunge una carota. Molti mettono le fave direttamente a bollire, mentre io ho preferito fare un leggero soffritto di scalogno per rendere il tutto più saporito: di fatto mi sono affidata a Mapi, che è la prima da cui avevo visto questa ricetta è che l’ha tratta da La cucina dei tabarchini di Sergio Rossi. Mi sembra una garanzia più che sufficiente.

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BOBBA – ZUPPA DI FAVE SECCHE

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 5 minuti       Tempo di cottura: circa 3 ore

Ingredienti

  • 250 g di fave secche decorticate
  • 200 g di zucchine
  • 1 scalogno
  • olio extravergine di oliva
  • maggiorana
  • 10 foglie di basilico
  • origano
  • sale
  • 4 fette di pane casereccio

Procedimento

La notte precedente, mettete in ammollo le fave in abbondante acqua fredda.
Al mattino, affettate sottilmente lo scalogno e stufateoa in 3 cucchiai di olio evo.
Scolate le fave e unitele alla cipolla, facendo soffriggere un paio di minuti. Aggiungete delle foglioline di maggiorana, le zucchine tagliate a pezzetti, salate e coprite con acqua calda. Portate ad ebollizione e fate cuocere a fuoco lento per circa 3 ore, fino a quando le fave non saranno completamente disfatte.
Spegnete il fuoco, unite il basilico e fate riposare. Per fare prima potete usare la pentola a pressione, nel qual caso dovrebbe bastare un’oretta.
Tostate il pane, conditelo con olio e maggiorana e servitelo con la zuppa.

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I Savoiardi per l’Unità d’Italia

Domani si festeggia l’anniversario dell’Unità d’Italia, il 155esimo, e il Calendario del Cibo Italiano gli dedica un’intera settimana di festeggiamenti, con tante ricette che provengono da ogni parte dello stivale.
Perché la cucina italiana non è una ma poliedrica, sfaccettata, localistica, e anche nell’unità del Paese ha mantenuto queste caratteristiche. Per saperne di più, vi suggerisco di leggere il post di Giulia, ambasciatrice d’eccellenza. E magari anche di visitare il suo blog, Alterkitchen, ricchissimo di ispirazioni, dalle ricette più semplici e universali, a quelle più complesse della tradizione piemontese.

Per l’occasione, ho deciso di condividere una ricetta che avevo sperimentato per un vecchio MTC e che non aveva ancora trovato spazio su queste pagine: i savoiardi. La ricetta viene dalla stessa Giulia, quindi andiamo sul sicuro.

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L’origine dei savoiardi si perde nella notte dei tempi e, come sempre quando si parla di origini e attribuzioni in ambito gastronomico, è irrimediabilmente incerta: ma il legame con la casa Savoia è innegabile.
La tradizione vuole che Amedeo VI, intorno alla metà del 1300, avesse fatto preparare questi biscottini in occasione di una visita dei reali di Francia, che li apprezzarono così tanto da portare la ricetta oltralpe, dove tutt’oggi sono conosciuti con il nome di biscuit à la cuillière (biscotti al cucchiaio). Da questo episodio derivò il nome di savoiardi e la successiva diffusione in tutta Italia e all’estero.
Varianti regionali che differiscono dall’originale – soprattutto per la quantità di albumi e tuorli – sono note in Sardegna (i cosiddetti pistocheddos o pistoccus de cafè), in Sicilia e in Molise, mentre in Inghilterra sono diffusi dei biscotti simili chiamati ladyfingers (dita di dama).
I savoiardi sono biscotti molto dolci, spugnosi e leggeri, adatti ad essere inzuppati e pertanto usati come base per il tiramisù o la zuppa inglese, ma anche in abbinamento a creme, salse e bavaresi, o nella famosa charlotte.
Nell’Ottocento, a Torino, venivano serviti con lo zabaione, parte integrante di quelle merende dei salotti aristocratici che ancora oggi fanno sognare gli appassionati di biscotti e biscottini.

 

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SAVOIARDI

Dose: circa 40 biscotti       Tempo di preparazione: 20 minuti       Tempo di cottura: 8 + 8 minuti

  • 110 gr di farina 00
  • 50 gr di fecola di patate
  • 125 gr di zucchero semolato
  • 100 gr di albume
  • 80 gr di tuorlo
  • 25 gr di miele di acacia o millefiori
  • semi di mezza bacca di vaniglia
  • zucchero a velo

Separate gli albumi dai tuorli. Questa operazione è più facile quando le uova sono fredde, ma prima di usare gli albumi è meglio lasciarli intepidire a temperatura ambiente per facilitare la montatura.

Iniziate a montare gli albumi con le fruste elettriche; quando hanno raddoppiato di volume aggiungete in due o tre volte lo zucchero semolato, sempre montando e aumentando progressivamente la velocità. Ci vorranno almeno 10-12 minuti per raggiungere una consistenza “a neve” ben ferma.

Una volta raggiunta questa consistenza, unite rapidamente i tuorli sbattuti con il miele, usando una spatola con movimenti dal basso verso l’altro per non smontare il composto. Unite quindi la farina e la fecola setacciate insieme e i semi di vaniglia, sempre con lo stesso movimento. Cercate di fare pochi movimenti e rapidi, ma delicati.

Riempite una sac-à-poche con bocchetta liscia; io ne ho usata una da 14 mm ma se li volete più affusolati vi consiglio quella da 10 mm. Formate dei bastoncini lunghi circa 8 cm su una teglia coperta di carta forno e leggermente imburrata (sì, ho imburrato la carta forno, altrimenti i savoiardi non si sarebbero staccati bene).

Spolverate con zucchero a velo, aspettate che sia assorbito e spolverate di nuovo: servirà a far venire la crosticina superficiale. Non esagerate con lo zucchero, altrimenti vi resteranno delle bollicine come è successo a me: quando li infornate deve essere tutto assorbito.

Cuocete a 180° in forno statico per i primi 3 minuti con lo sportello chiuso e poi altri 4-5 minuti con lo sportello leggermente aperto (basterà infilare il manico di un cucchiaio di legno per mantenerlo socchiuso). Fate raffreddare prima di rimuoverli dalla teglia: saranno sofficissimi.

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Pici con le briciole di Chiusi

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Il campanile. Ogni città, ogni paese, per piccolo che sia, ha il proprio, che si erge a vedetta dell’abitato e a sua rappresentanza. Da qui il termine campanilismo, ossia l’attaccamento esasperato alle proprie tradizioni e usanze locali, spesso in contrapposizione a quelle dei paesi limitrofi. E l’Italia, in questo, è maestra.
Con cucina di campanile, dunque, si intendono quei piatti (o varianti di piatti) a carattere eminentemente locale, tipici di una città o di un piccolo borgo, e che già a 10 km di distanza vengono preparati in modo diverso.

Il preambolo è per annunciare che oggi, secondo il Calendario del Cibo Italiano di AIFB, inizia la Settimana della cucina di campanile, di cui è ambasciatrice Stefania Mulè. Io contribuisco ai festeggiamenti con i pici con le briciole, piatto tipico del mio paese natìo: Chiusi, in provincia di Siena. In realtà è una ricetta che si trova anche nei paesi limitrofi, perciò è più corretto definirla tipica della Valdichiana senese, anche se Giovanni Righi Parenti, nel suo La Cucina Toscana, la inserisce nel capitolo dedicato specificamente alla cucina chiusina.

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I pici sono una pasta fresca fatta solo con acqua e farina, dei grossi spaghetti spessi circa 2-3 mm da crudi. Qualcuno mette anche un uovo, giusto uno, per renderli più elastici e facilmente lavorabili ma io mi sono rifiutata: volevo farli proprio come una volta.
In tutta la provincia di Siena si trovano in ogni ristorante, sagra e trattoria: con il ragù tradizionale o di cinghiale, con l’anatra, all’aglione, con cacio e pepe. Io ho scelto il condimento che usava sempre la mia nonna materna, quanto di più povero e semplice si possa immaginare: briciole di pane raffermo soffritte nell’olio. E vi assicuro che è buonissimo.
Ah, tra l’altro, una ricetta vegana ante litteram!

La tecnica di appiciamento si apprende con l’esperienza, e io non sono un’esperta: i miei pici sono irregolari e un po’ bitorzoluti. Ma la mamma dice che quelli della nonna – che io non ricordo – erano proprio così, e con questo me la cavo.

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PICI CON LE BRICIOLE

Porzioni: 2     Tempo di preparazione: 40′ + 30′ di riposo       Tempo di cottura: 10 minuti

Ingredienti

  • 240 g di farina 0
  • acqua q.b.
  • un pizzico di sale
  • 2 fette di pane casereccio raffermo
  • olio extravergine di oliva
  • sale e pepe

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Procedimento

Fate una fontana con la farina, versatevi un po’ di acqua, aggiungete un pizzico generoso di sale e iniziate ad impastare con la forchetta. Continuate ad aggiungere acqua fino ad avere un impasto malleabile ma non appiccicoso. Lavoratelo sulla spianatoia per 5 minuti, avvolgete nella pellicola e fate riposare mezz’ora.

Stendete l’impasto con il mattarello allo spessore di 1 cm circa, tagliatene una striscia e lavoratela con il palmo delle mani, rotolandola sulla spianatoia per dargli forma cilindrica e al tempo stesso tirandola verso le estremità per allungarla. Dovrete ottenere una sorta di lungo spaghetto, non troppo sottile, diciamo 2-3 mm di spessore. Proseguite fino ad esaurimento dell’impasto, coprendo quello ancora da fare per non farlo seccare e disponendo i pici finiti su un canovaccio cosparso di semola.

Passate il pane al mixer ricavandone grosse briciole e eliminando la parte troppo fine e “polverosa”. Fate soffriggere 3 o 4 cucchiai di olio evo in una padella antiaderente e rosolatevi le briciole per 4-5 minuti.

Lessate i pici in abbondante acqua salata per circa 5 minuti, scolate (tenete da parte un po’ di acqua di cottura!), e versateli nella scodella dalla quale li servirete. Conditeli con un po’ di olio e, se serve, aggiungete poca acqua di cottura, completate con le briciole e servite caldi. Aggiungete pepe a piacere.

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