Menù di primavera con i formaggi del Palagiaccio

È il gran giorno.
E ancora non capisco perché io sia così agitata, in fondo il libro mica l’ho scritto io.
Ma, effettivamente, non è quello il punto.
Il punto è che stasera vedrò la materializzazione – in carne e ossa – di quell’energia che mi arriva ogni giorno attraverso la banda larga, dritta dentro casa, e che spero di riuscire a riverberare almeno in parte.

Rivedere tutti, farsi festa, essere orgogliosi di un risultato ottenuto solo con la passione e la voglia di giocare, con se stessi e con gli altri.
Emozionata, mi avvicino in libreria. Entriamo tutti insieme, e questa è già una forza. È venuto anche R., malato e febbricitante, e gliene sono grata, perché senza di lui non sarebbe stata la stessa cosa. Nulla lo è.
Quando la confusione di abbracci, volti e saluti è già ad un punto di non ritorno arrivano anche le amiche, che non ero certa venissero, nonostante il pressing degli ultimi giorni. Ed è come un abbraccio, di quelli che ti strizzano forte; è come dire: “ti vogliamo bene”. Quando la presentazione inizia sono ormai un concentrato di contentezza ed entusiasmo.

Ma Alessandra parla solo da un paio di minuti, quando mi giro verso la porta e vedo un piumino rosso, e una faccia che per i primi secondi non riesco a collegare con la situazione, che mi provoca una sensazione di straniamento, e subito dietro un’altra, un caschetto bianco e qualcosa di rosso anche lì, ma non capisco cosa, nel ricordo, e due occhi curiosi e poi un sorriso, e dietro ancora un altro volto amico, occhi che mi cercano, mi guardano, e poi ridono.
Chissà che faccia avevo io. Stralunata, penso. Incredula. E sì che farmi sorprese non è facile, smonto sempre tutti, troppa organizzazione, troppe aspettative puntualmente disattese. Ma stavolta ci sei riuscita, alla grande.
Trecento km in una sera, andata e ritorno nel giro di poche ore per venire da me, perché hai capito che era una cosa importante, perché come te non mi vorrà bene nessuno, mai.
E la felicità che raggiunge punti di non ritorno: è stata davvero una festa, bella come non avrei mai pensato. Grazie.

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Con la primavera, torna la seconda edizione di Latti da mangiare, il contest dei formaggi prodotti dalla Storica Fattoria Il Palagiaccio, nel cuore del Mugello. Lo scorso anno avevo proposto due ricette: i crostoni di asparagi e Galaverna e i ravioli di fave e robiola con Gran Mugello, questi ultimi rientrati tra le 10 ricette finaliste. Era stata una grande soddisfazione, e il rammarico di non aver potuto partecipare alla cerimonia di premiazione me lo porto ancora dietro.

Quest’anno ai partecipanti era richiesto di pensare un menù di due portate, sempre con l’obiettivo primario di valorizzare i formaggi del Palagiaccio.
Mi sono ispirata ai profumi e alle verdure di stagione, cercando volutamente dei piatti semplici, nei quali i due formaggi che ho scelto potessero essere caratterizzanti e protagonisti.
In funzione di antipasto, ho pensato a delle piccole quenelle di riso mantecato con il Tartufino, un formaggio vaccino fresco al quale in fase di produzione viene aggiunto del tartufo bianchetto, che ho servito su una crema di fave.
A seguire, come primo piatto, una vellutata di asparagi e Blu Mugello, formaggio erborinato di latte vaccino dal sapore molto intenso e persistente, resa più sostanziosa da crostini di semolino.

Un menù all’insegna del verde e della primavera. E, senza nemmeno rendermene conto, totalmente vegetariano.

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QUENELLE DI RISO AL TARTUFINO CON CREMA DI FAVE 

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 30′       Tempo di cottura: 30′

Ingredienti

  • 60 g di riso carnaroli
  • 30 g di Tartufino del Mugello
  • 40 g di fave sgranate
  • 1 scalogno piccolo
  • 2 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • 2 cucchiai di granella di nocciole
  • latte q.b.
  • timo fresco

Procedimento

Scaldate un cucchiaio di olio evo in una pentola, versate il riso e fate tostare 2′. Unite a poco a poco acqua bollente leggermente salata e portate a cottura (al dente). Poco prima della fine, unite il tartufino a pezzetti, mescolate, spegnete il fuoco e coprite per 5′.

Sbollentate in acqua salata le fave per 3′, scolate e, se volete, togliete la pellicina (io non l’ho fatto, ed erano buone lo stesso). Affettate finemente lo scalogno, fatelo appassire con un cucchiaio in olio evo, poi unite le fave e salate. Cuocete per 1′, poi frullate con il frullatore ad immersione, unendo tanto latte quanto basta per una crema morbida ma non troppo liquida.

Disponete sui piatti la crema di fave e distribuitevi sopra delle quenelle di riso, completando con la granella di nocciole e foglioline di timo fresco.

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VELLUTATA DI ASPARAGI E BLU MUGELLO

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 20′       Tempo di cottura: 30′

Ingredienti

  • 500 g di asparagi
  • 40 g di Blu Mugello
  • 1 porro
  • 6 gherigli di noce
  • olio extravergine di oliva
  • sale e pepe
  • aceto di vino bianco
  • 250 ml di latte
  • 60 g di semolino
  • 20 g di burro
  • 1 tuorlo piccolo
  • 1 cucchiaio di parmigiano grattugiato

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Procedimento

Iniziate dal semolino. Portate ad ebollizione il latte con il burro e un pizzico di sale, versate il semolino a pioggia e mescolate vigorosamente con una forchetta per non far formare grumi. Cuocete 5′ mescolando con un cucchiaio, poi togliete dal fuoco e aggiungete il tuorlo e il parmigiano, mescolando bene. Stendete il semolino su un foglio di carta forno, livellandolo con una spatola, in uno strato alto circa 1 cm, coprite con pellicola e fate raffreddare.

Affettate finemente il porro (solo la parte bianca) e fate stufare in 3 cucchiai di olio evo, sfumando con 1 cucchiaio di aceto. Mondate gli asparagi eliminando la parte più legnosa, tagliateli a rocchettini, metteteli nella pentola con il porro e salate. Fate rosolare 3-4′, poi coprite con acqua bollente a filo e fate cuocere circa 30′, fino a quando non saranno teneri.

Se vi sembra troppa, eliminate un po’ dell’acqua di cottura, tenendola da parte: potrete aggiungerla in seguito se necessario. Frullate con il frullatore ad immersione, unite il Blu Mugello sbriciolato e frullate di nuovo con un paio di cucchiai di latte.

Tagliate il semolino a dadini e passatelo sotto il grill del forno a 220°C per 8′ circa, o fino a quando non diventa croccante. Servite la vellutata tiepida, completandola con i dadini di semolino, i gherigli di noce, pepe e un giro d’olio.

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Con questo menù partecipo al contest Latti da mangiare della Fattoria Il Palagiaccio

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La cucina di Carloforte: una enclave ligure nel mare sardo

Inizia oggi la Settimana della Cucina di frontiera del Calendario del Cibo Italiano AIFB (ne è ambasciatrice la mia mademoiselle preferita) e io vi racconto una storia curiosa e affascinante: quella del paese di Carloforte.

Ammetterete che arrivare in una piccola isola sarda e avere l’impressione di essere a Genova – per la lingua, per la cucina, per le tradizioni – ha dell’incredibile.

Tutto ebbe inizio nel 1542, quando un gruppo di pescatori di Pegli (ai tempi un piccolo paese autonomo, oggi quartiere della città di Genova) si trasferì nell’isolotto di Tabarka nei pressi di Tunisi, dove dette vita ad una comunità dedita alla pesca dei coralli e al commercio di spezie e stoffe pregiate in tutto il Mediterraneo.
Col passare dei secoli, il corallo divenne sempre più raro e le relazioni con i rais locali più difficoltose; per questo, nel 1738, una parte dei Tabarchini chiese al re Carlo Emanuele III di Savoia di potersi stabilire in un punto della Sardegna da dove poter proseguire le loro attività commerciali.
Venne loro concessa l’isola di San Pietro, al largo della penisola del Sulcis (sud-ovest della costa sarda), dove alla comunità proveniente da Tabarka si unirono famiglie dalla Liguria. Nella piccola isola si ricreò così una enclave culturale e linguistica ligure, e più precisamente genovese, raccolta nell’unico centro abitato di Carloforte.

Ancora oggi la comunità tabarchina di Carloforte usa un idioma molto simile al dialetto genovese e che fa parte del Genoise d’Otre Mer, ossia la lingua che era parlata dagli abitanti della Repubblica Genovese trasferitisi oltremare e che pertanto ritroviamo anche in Turchia, Francia, Spagna e Sicilia.

Come la lingua, anche la cucina porta i segni di una identità ancora viva e i piatti tipici di Carloforte sono incredibilmente vicini a quelli che si trovano nel genovese, anche se con adattamenti dovuti alle differenti risorse alimentari dell’isola e con le aggiunte derivate dai secoli trascorsi in Tunisia e dalle influenze mediterranee.
Il pesce domina incontrastato, in particolare il tonno, del quale vengono usate e cucinate tutte le parti, dall’esofago allo stomaco, passando per il cuore e i fegatelli.
Ma il richiamo fortissimo alla madrepatria è nel pesto, nelle focacce, nella farinata di ceci (fainè), nella cappunadda, oggi una ricca insalata a base di tonno, cipolla e olive, ma nata come piatto poverissimo dei marinari, che ammollavano in acqua di mare le gallette di pane e le condivano con olio, aceto e pomodori.
E ancora, se vogliamo parlare di primi, ritroviamo i curzetti (dischetti di pasta fresca), le trofie, i pansoti, i raiö (ravioli).
E poi c’è il cous cous (che nell’isola chiamano cascà), preziosa eredità dell’isola di Tabarka, e che da Carloforte arrivò anche nella terraferma ligure.

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Io ho scelto una ricetta che trovo molto semplice e al tempo stesso originale, perché le fave secche, oggi, si usano davvero poco. Il nome è davvero infelice – bobba – e inevitabilmente richiama un piatto acquoso e insipido. Si tratta invece di una zuppa densa e cremosa di fave, aromatica, da servire con pane tostato e condito che la rende saporita e sostanziosa. Non si discosta molto dal macco di fave siciliano (inserito anche nei prodotti agroalimentari tipici), ad ulteriore conferma della grande permeabilità culturale dei Paesi affacciati sul Mediterrano: con le merci e le persone circolavano nozioni, tecniche e cultura, anche quella gastronomica.

Le ricette della zuppa di fave che si trovano in rete variano leggermente, c’è chi usa molti tipi di verdure, chi si limita alle zucchine, chi vi aggiunge una carota. Molti mettono le fave direttamente a bollire, mentre io ho preferito fare un leggero soffritto di scalogno per rendere il tutto più saporito: di fatto mi sono affidata a Mapi, che è la prima da cui avevo visto questa ricetta è che l’ha tratta da La cucina dei tabarchini di Sergio Rossi. Mi sembra una garanzia più che sufficiente.

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BOBBA – ZUPPA DI FAVE SECCHE

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 5 minuti       Tempo di cottura: circa 3 ore

Ingredienti

  • 250 g di fave secche decorticate
  • 200 g di zucchine
  • 1 scalogno
  • olio extravergine di oliva
  • maggiorana
  • 10 foglie di basilico
  • origano
  • sale
  • 4 fette di pane casereccio

Procedimento

La notte precedente, mettete in ammollo le fave in abbondante acqua fredda.
Al mattino, affettate sottilmente lo scalogno e stufateoa in 3 cucchiai di olio evo.
Scolate le fave e unitele alla cipolla, facendo soffriggere un paio di minuti. Aggiungete delle foglioline di maggiorana, le zucchine tagliate a pezzetti, salate e coprite con acqua calda. Portate ad ebollizione e fate cuocere a fuoco lento per circa 3 ore, fino a quando le fave non saranno completamente disfatte.
Spegnete il fuoco, unite il basilico e fate riposare. Per fare prima potete usare la pentola a pressione, nel qual caso dovrebbe bastare un’oretta.
Tostate il pane, conditelo con olio e maggiorana e servitelo con la zuppa.

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Tegamaccio, zuppa di pesce del lago di Chiusi

Altro giro altra corsa sul treno MTC! Questo mese la sfida è stata lanciata da un donna che fatico ad immaginare come una partecipante, perché è chiaro che si tratta di una maestra: Nostra Signora dei Food Blogger Anna Maria Pellegrino.
E signora lo è davvero, in tutto quello che fa. La soggezione, quindi, è ancora maggiore del solito; per farmi coraggio, sono tornata a casa e mi sono rifugiata in una ricetta della tradizione.


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Il tema è il brodetto di pesce, o una zuppa, e si sa che con il pesce io ho poca dimestichezza. Lanciarmi in una ricetta sperimentale senza avere alcuna preparazione di base mi sembrava illogico e presuntuoso, per cui mi sono affidata alla sapienza antica del mio territorio: ne è uscita una bella occasione per mettermi alla prova, e per approfondire un piatto che ho sempre sentito nominare ma – fino ad oggi – mai assaggiato, né tanto meno preparato.

Anna Maria ci ha proposto il brodetto dell’Adriatico, descrivendolo come solo lei sa fare (non è una sviolinata eeeeh!): condito con storia antica e recente, evoluzioni subite nel corso del tempo, spiegazioni dettagliate e attenzione agli ingredienti, che mentre uno legge pensa “ma dai!”, e più legge più si meraviglia di quante cose non sa e alla fine si sente piccino picciò. Ma è dai grandi che si impara, no?

Io ho scelto il tegamaccio, una zuppa di pesce tipica del lago di Chiusi e del più noto Trasimeno.
Giovanni Righi Parenti, ne La Cucina Toscana, dice che tutti i pesci vanno bene, ma ce ne vogliono almeno un paio tra luccio, carpa, tinca e anguilla, e che se l’anguilla è abbondante la zuppa risulta particolarmente saporita. In assenza della tinca, che ormai è diventata piuttosto rara, noi abbiamo messo un persico reale, tipico di queste acque.
E’ una zuppa che ormai potete trovare in pochissimi ristoranti e alla sagra annuale che si tiene ad agosto in una piccola frazione di Castiglion del Lago (Porto), ma che in passato doveva essere molto popolare, anche perché non richiede pesce particolarmente pregiato, ma si può fare con quello che si pescava in giornata.

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In una bella domenica mattina di marzo, così, sono tornata tra le mie colline e mi sono cimentata nella preparazione. Il babbo mi aveva procurato il pesce necessario da un amico pescatore e la mamma lo aveva già pulito tutto (grazie mammina mia!). Senza di loro, dunque, questa ricetta non si sarebbe fatta; e a me è rimasta la parte divertente.

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La ricetta tradizionale, che deve essere cucinata in un tegame di coccio, prevede di mettere le teste direttamente insieme al resto del pesce, ma ognuno ha la propria variante: c’è chi non le usa affatto e chi le tosta velocemente nel soffritto per poi schiacciarle ed eliminarle. Io ho deciso di usare le teste per preparare un fumetto con il quale bagnare il tegamaccio durante la cottura.

Una pentola di coccio sufficientemente grande a casa mia non c’era e abbiamo dovuto ovviare con una in alluminio. Caratteristica del tegamaccio è che non deve essere mai mescolato per non rischiare che il pesce si disfi; durante la cottura basterà roteare delicatamente il tegame tenendolo per i manici.

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Nessuno di noi lo aveva mai preparato, quindi ci siamo consultati un po’ per decidere come fare e poi mi sono messa all’opera. Superate le incertezze lungo il cammino, i piccoli inconvenienti e le scaramucce che sapevo inevitabili nel momento cui condivido la cucina con qualcun’altro, alla fine abbiamo portato a termine il compito.

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Il risultato ci ha pienamente soddisfatto, anche se secondo loro dovevo aggiungere più olio (strano); anche per questo ho indicato una dose piuttosto generosa. Il tegamaccio era buonissimo e il magiare con i miei genitori qualcosa che abbiamo preparato insieme è stato molto  bello, nonostante i “potevamo mettere meno vino” o “doveva ritirarsi un po’ di meno”…se non ci fossero tutte queste osservazioni su quello che mangiamo non saremmo noi!
La degna conclusione è stata una bella passeggiata fatta con mia mamma, fino a quel lago tanto amato, che porto sempre nel cuore.

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Anna Maria ci ha fatto anche le richiesta di parlare di un momento particolare delle nostre vite, quando il cibo ha fatto la differenza. Ci ho pensato a lungo, ma non sono stata in grado di isolare un episodio specifico. Forse perché raccontarmi ancora più a fondo di quanto non ho fatto in questi anni di blog. O piuttosto, a pensarci bene, perché il cibo per me fa sempre la differenza: non riesco a ricordare momenti in cui non sia stato un  protagonista della mia vita, nel bene e nel male, e non riesco a scegliere un singolo episodio.
Quel che mi sento di dire è che sono felice di aver scelto questa ricetta perché, al pari del brustico, è un piatto che parla del mio lago, di quanto sia stato importate nel passato, non solo per le risorse alimentari che poteva offrire, ma anche per le attività artigianali che si svolgevano sulle sue rive. Oggi è vissuto da molti come un elemento marginale e accessorio, è perduta la cognizione di quanto abbia caratterizzato l’esistenza dei nostri nonni e bisnonni e molti prima di loro. Ma la sua bellezza, la quiete che vi si respira, quella non si può dimenticare, ed è la calamita che mi richiama alle sue rive non appena torno a casa.

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TEGAMACCIO

Porzioni: 6       Tempo di preparazione: 1 h       Tempo di cottura: 1 h circa + 1 h 30′ per il fumetto

Ingredienti

  • 1 carpa regina (circa 1,5 kg)
  • 1 luccio (circa 1 kg)
  • 2 anguille
  • 1 piccolo persico reale (circa 400 g)
  • 1 cipolla rossa grande
  • 3 spicchi d’aglio + 1
  • 200 ml di olio extravergine di oliva
  • 1 bicchiere di vino bianco
  • circa 1 kg di pomodori pelati (va bene anche la passata)
  • 1 carota
  • 1 costa di sedano
  • pepe nero in grani
  • peperoncino in polvere
  • sale e pepe
  • pane casereccio

Procedimento

Lavate, squamate ed eviscerate i pesci. Staccate le teste e tenetele da parte, tagliate il corpo dei pesci a pezzi piuttosto grandi. Fate un soffritto con poca cipolla e olio evo, poi aggiungete le teste ben lavate, fate tostare qualche minuto, coprite con abbondante acqua fredda, aggiungete la carota, il sedano e qualche grano di pepe nero e fate bollire fino a che il liquido non si sarà ridotto della metà. Filtrare, schiacciando bene le teste per ricavarne tutto il succo possibile, e tenete da parte (fumetto).

Tritate l’aglio e il resto della cipolla e fate stufare lentamente con l’olio evo, poi unite i pezzi di pesce, poggiandoli dalla parte della polpa. Fateli rosolare un paio di minuti, girateli delicatamente dall’altro lato e dopo altri due minuti disponeteli con la pelle sul fondo della pentola. Da questo momento non dovrete più girarli. Versate il vino bianco, un po’ di fumetto di pesce e, dopo 5 minuti, i pomodori pelati. Salate, pepate (poco) e fate cuocere una ventina di minuti coperto, poi scoprite, unite il peperoncino e fate cuocere per un’altra mezz’ora almeno. Se si asciugasse troppo potete aggiungere altro fumetto. E’ importante non girare mai il pesce, altrimenti di frantumerà; dovete solo roteare delicatamente la pentola tenendola dai manici. Alla fine deve risultare sugoso ma di un sugo denso, non troppo liquido.

Tostate delle fette di pane casereccio, strusciatele con uno spicchio d’aglio, disponetele sul fondo dei piatti e ricopritele con il pesce e il suo sugo.
Per mangiarlo, ovviamente, servono calma e pazienza, poiché ci sono molte lische: l’ideale per stare a tavola insieme a chiacchierare, senza fretta.
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Note:

  • il tegamaccio di lago non va confuso con l’omonimo piatto a base di maiale, tipico di Prato e del Mugello, e chiamato anche “tegamata”. Questo veniva preparato in occasione dell’uccisione del maiale, con gli scarti e le parti grasse dell’animale, fatte stufare a lungo e cotto con vino rosso, pomodoro e peperoncino.

 

Con questa ricetta partecipo all’MTC n. 55

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