Crepes di farina di castagne con cavolo nero, ricotta e noci

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Finalmente partecipo anche io attivamente al Calendario del Cibo Italiano!

Il progetto, promosso dall’Associazione Italiana Food Blogger, si propone di diffondere la cultura e la tradizione gastronomica dell’Italia, attraverso l’istituzione di un calendario in cui si celebrano, in 366 giornate e 52 settimane nazionali, i nostri piatti e i prodotti più tipici.

Ogni settimana è dedicata all’approfondimento di un tema scelto fra quelli che hanno maggiormente influito sulla storia della gastronomia italiana, così da delinearne in modo preciso la fisionomia. Ogni giorno dell’anno è dedicato alla celebrazione di uno dei piatti o prodotti tipici che ne hanno decretato la fama.

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L’obiettivo è quello di dar vita ad una vera e propria festa del cibo italiano, in modo corale e costante, nell’ottica di un riscatto della tradizione, delle eccellenze, del territorio, della storicità delle testimonianze umane e della tutela delle tecniche tramandate di generazione in generazione, nella consapevolezza che anche la cucina italiana è un patrimonio culturale, le cui ricchezze vanno quindi tutelate e preservate in primo luogo da chi a questa cultura appartiene per origine e per nascita.

Dopo questa premessa, vi svelo che oggi è la Giornata Nazionale delle Crespelle, la cui ambasciatrice, che ha curato il post ufficiale sul sito AIFB, è Alessandra Molla.
Il 2 febbraio non è un giorno scelto a caso perché oggi la Chiesa Cristiana festeggia la Candelora, ossia il giorno in cui Gesù fu presentato al tempio. Si narra che in questa giornata di festa, nel V secolo, papa Gelasio abbia sfamato i pellegrini giunti a Roma dalla Francia con una sorta di frittelline, antenate delle crespelle.
Da quel giorno, le crespelle divennero tipiche della festa della Candelora e ai francesi piacquero così tanto che riportarono la ricetta in patria, con la denominazione di crêpes. Tra le pieghe di questa leggenda si intravede la consueta rivalità tra Italia e Francia nel rivendicare la paternità delle ricette, ma anche l’indubbio legame di questa preparazione con un momento importante del calendario religioso cristiano.

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Il nome sembra derivare dal latino crispus, ossia arricciato, in riferimento al fatto che, una volta cotte, le crespelle tendono ad arricciarsi ai bordi. Dall’impasto di base (potete trovare la mia ricetta qui, in uno dei miei primi post in assoluto) si possono ricavare piatti dolci, con farciture a base di marmellata, creme spalmabili o zucchero, oppure primi piatti.

Sono ottime da preparare in precedenza, per poi metterle in forno pochi minuti prima di consumarle. La versione per me più familiare sono le crespelle alla fiorentina, con ripieno di ricotta vaccina e spinaci e condimento a base di besciamella e pomodoro. Oggi vi presento una versione, trovata qui, che avevo già pubblicato anni fa e ho deciso di riproporre con alcune varianti. Gli elementi toscani, ci sono tutti: farina di castagne, cavolo nero e pecorino.

Diversamente dalle crespelle alla fiorentina, non sono particolarmente cremose, anzi: il buono, secondo me, è la crosticina che si forma ai bordi. Se però volete ammorbidirle potete mettervi sopra un po’ di besciamella prima di infornarle. Nel ripieno, inoltre, ho preferito lasciare dignità al cavolo e non abbondare con la ricotta. Se lo volete più morbido potete cambiare le proporzioni o, magari, aggiungere un uovo.

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CREPES DI FARINA DI CASTAGNE CON CAVOLO NERO E RICOTTA ALL’ARANCIO

Porzioni: 6       Tempo di preparazione: 40 minuti       Tempo di cottura: 20 minuti

Ingredienti

Per le crêpes

  • 70 g di farina 00
  • 50 g di farina di castagne
  • 4 uova medie
  • 50 g di burro fuso
  • 400 ml di latte
  • un pizzico di sale

Per il ripieno

  • 600 g di cavolo nero lessato e strizzato bene
  • 450 g di ricotta di pecora
  • 2 cucchiai di parmigiano grattugiato
  • sale e pepe

Per gratinare

  • 3 cucchiai di pecorino toscano DOP stagionato, grattugiato
  • burro q.b.
  • scorza di due arance
  • 6 gherigli di noce, sminuzzati con le mani

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Procedimento

Setacciate le farine in una terrina. Sbattete le uova con il burro fuso e ormai freddo, unite il sale e versate nel composto di farina. Amalgamate e poi unite il latte freddo a filo, mescolando continuamente con una frusta per evitare la formazione di grumi. Fate riposare la pastella mezz’ora.

Scaldate un padellino antiaderente, fatevi sciogliere poco burro e quando è ben caldo versatevi una piccola quantità di pastella, quante ne basta a coprirne il fondo e formare una crêpe sottile. Mentre la versate fate roteare il padellino, così da garantire una distribuzione uniforme sul fondo.
Cuocete per 3-4 minuti a fiamma media, fino a quando i bordi non si arricciano un po’ e la crêpe tende a ritirarsi. Sollevate il bordo aiutandovi con una spatola e poggiate la crêpe ottenuta su un piatto. Essendo molto sottile, di solito non c’è bisogno di farla cuocere anche sull’altro lato.
Procedete fino all’esaurimento della pastella, aggiungendo di nuovo un velo di burro nella padella qualora ve ne fosse bisogno.

Prendere il cavolo nero che avete precedentemente lessato (avendo cura di scartare le coste centrali troppo dure), strizzatelo bene e, se vi sembra che vi sia ancora troppa acqua passatelo in padella con un filo d’olio per 4-5 minuti, a fiamma vivace, per farlo asciugare bene.
Mescolatevi la ricotta, il parmigiano e aggiustate di sale e pepe.

Distribuite su metà di una crêpe un po’ di composto di ricotta, chiudete a metà e poi di nuovo a metà, ottenendo un triangolo. In alternativa, potete distribuire l’impasto in un rotolino lungo come il diametro della crêpe e poi arrotolarvela intorno, formando dei cannoncini (che forse è la forma più canonica delle crêpes).

Ungete il fondo di una pirofila e disponetevi le crêpes leggermente sovrapposte. Se avete fatto dei cannoncini, invece, metteteli uno accanto all’altro, stretti e senza spazi intermedi.
Cospargete la superficie con fiocchetti di burro e pecorino grattugiato e infornate a 180°C per 20 minuti circa. Sfornate, fate riposare 5 minuti, poi cospargete con poca scorza d’arancio e i gherigli di noce e servite in tavola.

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Note:

  • io ho utilizzato un padellino del diametro di 16 cm, ottenendo 18 crêpes, pensando di servirne 3 a testa, che è una buona porzione. Se avete padella più grande, ovviamente, ne otterrete meno, e considerando che alcune potrebbero rompersi suggerisco di fare un po’ di pastella in più.
  • è molto importante che il rivestimento del padellino sia in buono stato, altrimenti le crêpes si attaccheranno. Inoltre la base deve essere perfettamente piana, non deformata, altrimenti le crêpes avranno spessore irregolare nei diversi punti.

Fonti per le notizie storiche:

Il secondo raduno AIFB: le mie impressioni

A Rimini, dal 13 al 15 novembre si è svolto il secondo raduno AIFB (Associazione Italiana Food Blogger).
Tre giorni intensi, dei quali non è semplice fare una sintesi.

Il confronto con il primo raduno (quello di Siena, che avevo raccontato qui) è inevitabile. Era solo un anno fa, ma sembrano dieci se penso ai tanti progetti realizzati e all’evoluzione dell’Associazione stessa.
A Siena avevamo cercato di darci un’identità, di capire chi fossimo e quale ruolo potessimo ricavarci. Lo ricordo come un ritrovo un po’ carbonaro, quasi in sordina, accolti da strutture non perfettamente funzionali allo scopo, ma mossi da una grande voglia di conoscerci di persona.
Allora ci furono diversi interventi di carattere tecnico, che mi sono stati utilissimi per capire come migliorare il modo di scrivere, di presentare un piatto, di trovare una mia nicchia.
Fu un bellissimo momento di scoperta, che mi arricchì molto e mi dette fiducia.

E a Rimini come è stato? La sistemazione e l’organizzazione erano sicuramente più professionali: una grande e luminosissima sala riunioni; un albergo di alta categoria, nuovo e spazioso, con personale efficientissimo; ottimi collegamenti, nessuna necessità inevasa. Certo, è mancato il calore di Siena, di una città sghemba e bellissima che facesse da cornice al nostro ritrovo, ma – tutto sommato – non era quello l’aspetto principale da curare.

Il tema di quest’anno era “Contro il food, verso il cibo”. Un titolo che afferma chiaramente la volontà di riappropriarsi delle proprie radici culturali, contro le mode esterofile, i gastrofighetti e i le infatuazioni 2.0 che portano tutti a fare le medesime ricette-tormentone nello stesso momento.
Spegnere i riflettori, togliere i costumi di scena e parlare di ciò che mangiamo, sul serio, tutti i giorni. E che ha fatto la storia del nostro Paese. Non in un accesso di nazionalismo – ultimamente se ne respira sin troppo – ma con l’intento di riconoscere e affermare il nostro valore, le nostre peculiarità, la profondità della nostra gastronomia, che non ha certo bisogno di  scimmiottare quelle altrui.

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Se lo scorso anno abbiamo perimetrato la nostra identità, oggi abbiamo fatto un grande passo avanti nella costruzione di una personalità matura e articolata, ché ormai chi siamo lo abbiamo capito. Al nostro essere dobbiamo ora dare voce e forma, proiettarlo all’esterno, farlo conoscere.

Gli interventi erano articolati intorno a tre temi fondamentali: Territorio, Testimonianze e Tradizione. Perché è a questo che rimanda il cibo nei suoi significati più profondi.
Al territorio che lo produce e di cui è espressione, e alle persone che lo abitano.
Alle testimonianze storiche, culturali e antropologiche che ne stanno alla base.
Alla tradizione che lo ha tramandato attraverso le generazioni, permettendogli di sopravvivere, se pur mutato, allo scorrere del tempo.

Per affrontare di argomenti così complessi e articolati, non potevano esserci altro che relatori di altissimo livello, uno tra tutti Paolo Petroni, presidente della storica Accademia Italiana della Cucina. (Se volete sbirciare il programma completo, cliccate qui, mentre sul sito AIFB troverete sintetiche biografie dei relatori).

Oltre alla qualità, il pregio degli interventi era di avere carattere e taglio molto diverso tra loro. In questo modo ognuno di noi ha ascoltato relazioni con contenuti vicini alla propria sensibilità e al proprio interesse, ma al tempo stesso ha potuto aprirsi ad altri apporti, a punti di vista diversi, a prospettive sulle quali, forse, non si era soffermato abbastanza.
Per me è stato davvero molto utile. Ho avuto spunti di riflessione, ho scoperto punti deboli, mi sono fatta domande. E l’unico cruccio, forse, è di aver avuto poco spazio per il dibattito (che poi finisce che io non parlo mai, lo so, ma sono certa che avrei ascoltato attentamente!). Ma forse va bene anche così, in modo che ognuno di noi abbia modo di rielaborare con calma le parole ascoltate e costruirsi la propria idea.

Ho trovato l’associazione molto cresciuta, più consapevole di se stessa e al tempo stessa autorevole verso l’esterno. Sono sempre più numerose le partnership e le collaborazioni, che vedono AIFB interlocutore privilegiato di istituzioni come la Federazione Italiana Cuochi (a presto aggiornamenti!), l’Associazione Nazionale Città dell’Olio, il Policlinico Universitario Federico II, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie…e l’elenco è ancora lungo.

E poi, avrete sentito parlare del Calendario del Cibo Italiano, no? Noo?! Be’, allora ne sentirete parlare presto. Perché AIFB ha pensato di lanciare per il 2016 un grande progetto di valorizzazione della cultura gastronomica italiana. Piatti, ingredienti e protagonisti di rilievo della storia della cucina italiana verranno celebrati nel corso di un intero anno, ognuno con una giornata dedicata, degli approfondimenti e delle ricette. Una grande festa che si rinnova ogni giorno, per conoscere meglio quello che ci sta alle spalle. E nel piatto.

Anche quest’anno sono rientrata arricchita dal confronto, motivata nella mia attività e carica di idee ed entusiasmo per i prossimi mesi.
Grazie a tutti i soci AIFB che hanno condiviso con me questo momento di crescita e grazie al mitico direttivo AIFB per aver permesso tutto questo.
E ora, tutti al lavoro.

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Sapori e luoghi di Garfagnana. Tagliatelle di grano saraceno con trota affumicata

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(Segue da qui). 
La Garfagnana è un territorio complesso, che sfida i suoi abitanti con molte difficoltà, ma offre anche tante risorse diversificate, base fondante delle microeconomie sulle quali si regge la regione.
E questo non avviene solo nel settore agricolo e forestale ma anche per attività artigianali che piano piano si stanno facendo strada nel mercato globale, come nel case del birrificio La Petrognola di Piazza al Serchio.blogtour garfagnana-61

Roberto, il titolare, ci illustra le fasi e gli impianti di produzione dove i cereali in chicco vengono macinati e immediatamente utilizzati per ridurre al minimo l’ossidazione. La produzione è molto ampia e a birre più comuni e facili da commercializzare si affiancano birre “speciali”, con luppoli selezionati, che sono destinate ai veri intenditori.

É a queste che Roberto tiene di più – è evidente dal calore e dall’entusiasmo con cui ne parla – ed è una di queste che ci fa assaggiare: la Indian Pale Ale al farro, che lascia tutti di stucco per l’intenso profumo di frutta esotica e il sapore invece piuttosto amaro ma piacevole.collage7

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Un’altra attività artigianale che spicca nel panorama locale è quella del caseificio Marovelli di San Romano di Garfagnana, che da 50 anni produce formaggi con latte vaccino, caprino e ovino. Tra i vari tipi di pecorino cito quello stagionato in foglie di castagno, mentre si differenzia dalle produzioni tradizionali locali il Bagiolo, un formaggio a crosta fiorita che ricorda il francese Brie.

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Tra la visita a La Petrognola e quella caseificio Marovelli, una piacevole diversione. Il pulmino guidato dal fidato Carmine ci porta a Giuncugnano, il Comune più elevato della provincia di Lucca, con i suoi 800 metri di altitudine, dove l’aria è più fresca e il panorama ancora più ampio.

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Qui ci concediamo un pranzo presso lAgriturismo Il Grillo, gestito dal giovane Stefano, che dopo anni di esperienza come chef all’estero ha deciso di scommettere sul suo territorio e gestire il piccolo ristorante legato all’omonima azienda agricola. Ma gli anni di formazione si fanno sentire e la sua non è affatto una cucina casalinga, bensì raffinata quanto basta per valorizzare la tradizione senza snaturarla.
Gustosi e ricercati gli antipasti con insalata di farro, arancini di farro, quiche di cipolle e formaggio su briseè…di farro! É evidente che questo cereale è il motivo ricorrente della gastronomia locale, ma è talmente versatile che non stanca mai e si resta sorpresi da quante declinazioni possa avere. La degustazione prosegue con tagliatelle di farro e ortica condite con ragù di rosmarino e salsiccia e, come dessert, una pastiera in chiave locale, con farro cotto nel latte vaccino e crema pasticciera, completato dalla confettura di lamponi dell’azienda agricola.

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La giornata si conclude con una passeggiata nel piccolo centro storico di Castelnuovo di Garfagnana, e con la cena al ristorante dell’Hotel La Lanterna.

Al risveglio ci accoglie un cielo plumbeo di pioggia ed è evidente che la visita al castagneto, alla quale tenevo tanto, non si farà. Ma Antonella sfodera i suoi assi nella manica e in 10 minuti elabora un programma alternativo di tutto rispetto.

A Gallicano visitiamo lallevamento di trote La jara (che significa ghiaia), lungo il torrente Turrite, al riparo di un alto costone roccioso, al centro del quale è incastonato l’eremo di Calomini.

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Uno dei fratelli Lorenzi, i proprietari, ci illustra come avviene la riproduzione delle trote in natura e in che modo viene effettuata nell’allevamento, dove si pratica anche l’affumicatura con i legni aromatici della foresta soprastante.
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Fino a pochi anni fa le trote venivano allevate solo per rifornire i laghetti di pesca sportiva e la tendenza era quindi di farle crescere rapidamente, nutrendole in maniera massiccia.
Di recente, invece, la produzione è stata convertita a fini alimentari e le trote della Jara arrivano sulle tavole di molti ristoranti locali; adesso i pesci vengono fatti crescere con tempi simili a quelli naturali e nutriti con mangimi a base di farina di pesce: così sono meno stressati e ottimali per il consumo alimentare. Ne abbiamo avuto un assaggio all’Osteria Vecchio Mulino e non ci facciamo scappare l’occasione per acquistarne un po’ in loco.

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Nel frattempo il cielo si è aperto e quando arriviamo a Podere Concori splende il sole.
Gabriele ci racconta la sua storia, di come si sia sottratto ai ritmi frenetici della ristorazione per ritirarsi in questo angolo di Garfagnana a produrre vini biodinamici. Un progetto nel quale nessuno avrebbe scommesso, perché questa terra non ha mai avuto una forte vocazione vitivinicola, figurarsi se si tratta di fare vino senza l’aiuto della chimica. Ma Gabriele ha creduto nel suo territorio ed è riuscito a valorizzarne le potenzialità; ha recuperato 4 ettari di bosco e ne ha ricavato 5 piccoli vigneti, destinando ogni appezzamento al vitigno più adatto in base ad una accurata valutazione del tipo di suolo, della ventilazione e dell’esposizione

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L’entusiasmo e la passione che lo guidano sono palpabili e si trasmettono attraverso il suo sorriso a noi che lo ascoltiamo.
Un altro esempio dello spirito dei garfagnini che rimangono, che amano così tanto la propria terra da non sopportare l’idea di abbandonarla, che trasformano le difficoltà in risorsa e spinta per emergere, che si ricavano una nicchia tutta speciale che gli consente di prosperare ma senza tradire il territorio dove risiedono le loro radici.

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Incredibilmente, tuttavia, dopo tanti esempi di attività appassionate e progetti virtuosi, ce n’è uno che – per me – spicca su tutti. Quello dove il recupero del passato e il rispetto del territorio è portato all’ennesima potenza. Anzi, non di recupero si deve parlare, perché alla Cerasa il ponte con il passato non si è mai interrotto.

Con il nostro pulmino saliamo tra i fitti boschi, saliamo e saliamo lungo una strada strettissima addossata al fianco della montagna, mentre sull’altro versante si apre una scenario maestoso di foreste verdeggianti e valli nascoste. Si respira un’aria di sacralità, di calma sovrana e irreale, come se i mille occhi del genius loci ci osservassero, curiosi, addentrarci nel folto del suo regno.

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Dopo l’ennesima curva, compare una casetta di pietra linda e ordinata, quasi di fiaba, con gerani rossi all’ingresso e un piccolo pergolato su pali di legno. Tutto intorno, quiete e castagni.
La Cerasa, nel Comune di Pieve Fosciana, è un’azienda che vive grazie alla multifunzionalità e alle piccole produzioni diversificate, ma è soprattutto una famiglia. Mario Cavani, il patriarca, ha vissuto tra questi boschi per 40 anni, e con lui la moglie Gemma e la figlia Ombretta.

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A questa altitudine (960 m s.l.m.) e con questa conformazione geografica, non si può vivere di un’unica attività, e allora si sfrutta, con rispetto, tutto quello che offre la natura. Si allevano pecore e si lavora la lana, si producono formaggio, salumi e carne di agnello, si raccolgono le castagne e se ne fa farina (c’è anche la possibilità di adottare un castagno e i suoi frutti), si raccolgono le noci, si fanno confetture. Attività antiche, umili e al tempo stesso nobili, dove la tecnologia è impiegata in minima parte e la differenza la fa la mano dell’uomo.

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Il progetto più importante, però, è il recupero della pecora garfagnina bianca, una razza appenninica a triplice attitudine (latte, lana e carne) che fino agli anni ’50 contava moltissimi esemplari. Negli anni del boom economico, però, molte zone montane furono abbandonate e gran parte delle pecore garfagnine furono sostituite dalle nere massesi, che producono più latte ma mal si adattano a questi climi.
Nel 2004 erano rimasti soltanto 20 esemplari di pecora garfagnina; grazie all’azione congiunta dell’Unione dei Comuni, delle Università di Pisa e Firenze e dell’Associazione Provinciale Allevatori è stata reintrodotta nell’azienda di Cerasa (di proprietà della Regione Toscana), nel suo territorio naturale. Oggi ne esistono più di 1000 capi in tutto il territorio garfagnino.

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La pecora garfagnina è molto rustica, si adatta a brucare ogni tipo di erba e a qualsiasi tipo di terreno; produce meno latte rispetto alla massese ma con una maggiore percentuale di grassi, per cui la resa in termini di formaggio è identica. Ed è un formaggio particolarmente gustoso in virtù delle erbe di cui si nutrono le pecore, che vivono per la maggior parte del tempo su ricchi e profumati pascoli di altura.

La resa quantitativa e la qualità del prodotto (che ha così anche una forte valenza territoriale e identitaria) è un aspetto essenziale perché qualsiasi forma di recupero  – che si tratti di animali, come in questo caso, o di piante, come accade nella banca del germoplasma di Camporgiano – rimane un esercizio sterile se non ha sostenibilità economica. Solo così le azioni intraprese dai singoli e dalle amministrazioni non rimangono fini a se stesse ma hanno ricadute effettive sull’economia del territorio e sulla vita delle persone che lo abitano.
Le scelte politico-amministrative, anche nel piccolo raggio, non sono mai insignificanti, ma hanno il potere di intervenire nella realtà delle cose e darle un indirizzo preciso. E la fortuna della Garfagnana è anche aver trovato amministratori capaci di comprenderla e valorizzarla nelle sue qualità migliori.

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Quando entriamo nella piccola baita di Cerasa è come fare un salto indietro nel tempo. Ricordi di un tempo lontano che ho appena sfiorato, svanito via prima che potessi fissarlo dentro di me. Le cucine calde e semibuie delle nonne di campagna, quando neon e faretti erano di là da venire, le vetrine di legno massiccio che ospitano tazze e piattini con il filo dorato, due pesanti tavoli di legno con una tovaglia a quadretti rossi e bianchi, soffitti bassi e infissi scuri.
Una casa, un rifugio accogliente, una tana. Questo sono le due stanze della Cerasa quando entriamo.
Ci sediamo ai due lunghi tavoli che occupano una stanza, in un’atmosfera calda e conviviale; mangiamo salumi e formaggi fatti da Mario, la pasta al salvietto, che ormai nessuno sa più fare più, e un arrosto misto di agnello, pollo e maiale con patate, tra i più buoni che abbia mai mangiato (e io adoro l’arrosto!).

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Dopo pranzo, la proiezione del cortometraggio pluripremiato “Bianca e gli altri” (potete vederlo qui), di Roberto Giomi e Antonella Giusti, dove si racconta per immagini la vita dei pastori, la transumanza, il meraviglioso Appennino e la sua natura. In poco più di 20 minuti tante immagini bellissime, toccanti e, soprattutto, vere. Lo so per certo, ora che sono stata qui. Inutile parlarne tanto. Guardatelo.

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Il nostro blogtour termina qui, in un luogo di sogno, dove il tempo si è fermato, dove si conoscono ancora il sacrificio, la fatica del lavoro e – di conseguenza – il valore delle cose.

Mi sento un po’ stupida, qui, con il mio smartphone, l’ossessione di essere costantemente connessa e i miei strumenti di modernità, che ora mi appaiono solo gabbie. Qui, dove non c’è linea, non c’è campo, non c’è segnale, capisco quanto si possa essere ancora liberi e cogliere il senso delle cose.
Vivere seguendo il ritmo del sole e delle stagioni, uomini che tornano nel loro ambiente naturale, in una natura niente affatto idilliaca, a volte dura e impietosa, che va plasmata, ma sempre con profondo rispetto.
Sarebbe bello passare del tempo qui. Sarebbe facile ascoltarsi, sentire chi siamo, nel fisico e nell’anima, capire che il senso che cerchiamo di continuo, in fondo, è una cosa semplice a portata di mano.

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N.B.: vorrei ringraziare tutte le persone che hanno contribuito all’organizzazione del blog tour e che ci hanno accolto con tanto entusiasmo e passione: Stefano Bertolini (Agriturismo Il Grillo), Mario, Gemma e Ombretta Cavani (Azienda agricola Cerasa), Gabriele Da Prato (Podere Concori), Paolo Fantoni (presidente Unione dei Comuni), Sandro Fioroni (dirigente Unione dei Comuni), Roberto Giannarelli (birrificio La Petrognola), fratelli Lorenzi (allevamento La Jara), Antonella Poli (responsabile dell’Ufficio Informazione e Accoglienza Turistica Garfagnana), Annarita Rossi (organizzazione blog tour), Andrea Tagliasacchi (sindaco Castelnuovo di Garfagnana), l’Hotel La Lanterna di Castelnuovo di Garfagnana.

TAGLIATELLE DI GRANO SARACENO CON TROTA AFFUMICATA E CREMA DI FINOCCHI

Porzioni: 2       Tempo di preparazione: 15 minuti       Tempo di cottura: 30 minuti

Ingredienti

  • 160 g tagliatelle di semola di grano duro e grano saraceno (della Garfagnana Coop)
  • 60 g trota affumicata (allevamento La Jara)
  • 2 finocchi piccoli (o 1 grande)
  • 80 g cipolla rossa (al netto degli scarti)
  • 3 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • vino bianco q.b.
  • sale

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Procedimento

Affettate finemente la cipolla e scaldatela nell’olio per qualche minuto. Sfumate con poco vino bianco, fate evaporare e unite i finocchi affettati molto sottili. Mescolate un paio di minuti, salate, aggiungete circa mezzo bicchiere d’acqua e fate cuocere coperto finché i finocchi non sono teneri, scoprendo negli ultimi minuti per far evaporare eventuale liquido in eccesso. Frullate e tenete da parte.
Lessate le tagliatelle in abbondante acqua salata e nel frattempo tagliate a listarelle la trota affumicata.
Scolate la pasta al dente, ripassatela in padella con la crema di finocchi (aggiungendo un paio di cucchiai di acqua di cottura se fosse troppo asciutta) e aggiungete la trota 30 secondi prima di spegnere il fuoco. Servite calda.

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