Tarte (o crostata) Grenoble di Montersino

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Metti una domenica libera, metti la voglia di andare a trovare i genitori, e metti pure il desiderio di fare una crostata diversa dal solito. Risultato: partiamo al mattino con la torta in macchina e il cielo rischiarato dopo una giornata di pioggia.
Ma si può forse provare una nuova torta e non fotografarla per il blog? Giammai! Così carico anche il minimo di attrezzatura indispensabile, determinata a sacrificare un’oretta prima del pranzo per fare almeno qualche scatto.
Tra l’altro, sono anni che sogno di usare un po’ delle porcellane della mamma per i set fotografici, invece che sfruttare fino allo sfinimento i miei quattro coccini, per cui la fantasia già vola alta, sognando scatti bellissimi e accattivanti.

Ovviamente, arriviamo in ritardo sulla tabella di marcia. Un rapido saluto e inizio subito ad allestire il set che avevo in mente dalla sera precedente.
Comprensibilmente, i miei genitori volevano chiacchierare un po’, il bassotto pretendeva di avere una parte attiva nello shooting e R. –  desideroso di aiutarmi nella mia impresa –  mi osservava con circospezione, cercando di capire come rendersi utile.
Oltre a questo, c’erano il 50 mm nuovo di zecca con il quale non mi raccapezzo ancora per niente, la luce di un ambiente del tutto nuovo e la leggera pressione psicologica di sapere che tutti aspettavano me per il pranzo. Atmosfera distesa, insomma.

Scatto sotto agli sguardi cauti e incuriositi di mamma e babbo, che ogni tanto fanno capolino dalla cucina, non pensando  che “ci volesse così tanto” a fare una foto (e meno male che ho scattato nella metà del tempo che impiego di solito!). Seguono sguardi ancor più interdetti e incuriositi nell’osservazione dell’allestimento del set, tentativi di aiutare accendendo la luce del salotto (NO!!) e, infine, ritorno in cucina con filosofica rassegnazione per questa figlia così particulier.

Risultato: ansia a palla, pranzo ritardato e foto insoddisfacenti.

In compenso, le ore trascorse insieme sono state più piacevoli che mai, tra chiacchiere, risate, racconti  e cose buone da mangiare. E la torta? Era buonissima.

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Ho cercato in diversi siti francesi se esistesse una versione originale di questa torta e, come al solito, non ho fatto altro che confondermi le idee. Mi sono imbattuta in ricette molto diverse tra loro, dove l’unico denominatore comune erano le noci. Alcune volte nel ripieno c’erano uova, burro e farina, ma più spesso ho trovato una sorta di salsa di caramello, così ho optato per questa versione. Tra le varie ricette ho deciso di optare per quella che dovrebbe essere la più garantita, ovvero quella dell’arcinoto Luca Montersino. Mi sono affidata a lui non solo per il ripieno, ma anche per la frolla, molto diversa da quelle che ho usato finora. Ha poco burro e poco zucchero, compensati da un’elevata percentuale di tuorli. Se vi spaventa dover “sacrificare” o riutilizzare così tanti albumi, o se volete un impasto più dolce, potete semplicemente usare una frolla tradizionale o quella a cui siete abituati. Io ho pensato che, data l’elevata dolcezza del ripieno, fosse meglio un guscio più neutro.

Il rapporto tra le dosi di frolla e quelle di ripieno della ricetta di Montersino, secondo me, è sbilanciato perché mi è avanzata una grande quantità di frolla. Vi lascio le dosi “corrette”, così da non avere avanzi.

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TARTE GRENOBLE

Porzioni: 6-8       Tempo di preparazione: 30 minuti + 1 h di riposo       Tempo di cottura: 15′ + 30′

Ingredienti

Per la frolla

  • 250 g di farina 0
  • 85 g di zucchero semolato (nell’originale è zucchero a velo)
  • 85 g di burro morbido
  • 85 g di tuorli (circa 4)
  • 1/2 bacca di vaniglia

Per la farcia

  • 125 g di zucchero semolato
  • 35 ml di acqua
  • 18 g di miele
  • 150 g di noci sgusciate
  • 125 ml di panna fresca

Per lucidare

  • 10 g di tuorlo d’uovo
  • 20 ml di panna fresca

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Procedimento

Mescolate la farina con lo zucchero e i semi ricavati dalla bacca di vaniglia. Unite il burro morbido a pezzetti e lavorate sfregando tra le dita fino ad ottenere un composto bricioloso (metodo sabbiato). Versate sul composto i tuorli leggermente sbattuti, amalgamateli con la forchetta e poi lavorate brevemente l’impasto con le mani fino a che non è omogeneo. Avvolgete nella pellicola e riponete in frigo per un’ora circa.

Mettete lo zucchero e l’acqua in una pentola dal fondo spesso e dai bordi alti (importante) e fate cuocere a fuoco basso fino ad ottenere un caramello piuttosto scuro. A questo punto unite il miele leggermente riscaldato e poi la panna quasi bollente, poca per volta e facendo molta attenzione perché tenderà a fuoriuscire dalla pentola. Spegnete il fuoco, unite le noci, mescolate e fate raffreddare per 15-20 minuti.

Prendete l’impasto dal frigo e tenetelo per un quarto d’ora a temperatura ambiente, così che si riscaldi un po’. Stendetene 1/3 su un foglio di carta forno, allo spessore di 3-4 mm, spennellatelo con il tuorlo leggermente sbattuto con la panna e mettete in frigo. Stendete il resto dell’impasto e foderatevi una tortiera a cerniera precedentemente imburrata del diametro di 18 cm. Versatevi il ripieno di noci e rifilate il bordo, lasciandolo un paio di mm più alto del ripieno.

Riprendete il disco di pasta frolla dal frigo e ricavatene delle strisce con una rotella tagliapasta, che andrete a mettere sopra alla crostata, formando un intreccio. Infornate a 180°C e cuocete per circa 30 minuti.

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Note:

  • le dosi sono per una tortiera da 18 cm di diametro. Per una da 24 dovrebbe bastare raddoppiarle…ma non ho provato!
  • le foto della ricetta di Montersino raffigurano una crostata altissima, quasi 5-6 cm. Secondo me è decisamente troppo per un ripieno così sostanzioso e che rischierebbe di diventare stucchevole: 2, massimo 3 cm mi sembra l’altezza giusta.

Per questa ricetta si ringraziano:

  • il babbo, per aver fornito le noci, nonchè l’aperitivo in fase di shooting (sarà per questo che ho avuto difficoltà con le foto?);
  • la mamma, per aver messo a disposizione stanze, mobili e props;
  • R., per il supporto tecnico e la paziente comprensione;
  • Freccia il bassotto, per l’azione di disturbo e la colonna sonora “Abbai e uggiolii”.

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Frollini al caramello di Montersino

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Cosa ci fa una frolla di Montersino su queste pagine? Immagino che da me non ve la sareste aspettata. E nemmeno io.
Il fatto è che tempo fa mi ero lasciata conquistare da un bellissimo burro “formato contadino” che mi occhieggiava dal banco frigo, promettendomi che insieme avremmo fatto grandi cose. Poi, evidentemente, le nostre vite hanno preso strade diverse e l’altro giorno mi sono accorta con orrore che il suddetto burro, quasi intonso, era in scadenza.
Panico. Cosa mai può farci con due etti di burro, una che cerca di ridurlo in ogni ricetta?
Facile, dei biscotti di Montersino.

Ora, fatemi dire la mia opinione, e che l’esercito delle sue fan non se ne abbia a male.
Montersino, per chi non lo sapesse, è il pasticciere superstar che negli ultimi anni ha conquistato editoria e mondo televisivo a suon di creazioni raffinatissime e piacioneria italica. Io non l’ho mai seguito né in tv né sui libri, quindi non posso esprimermi sul suo operato, che immagino comunque valido e professionale. Ma è dai tempi dei Take That che mal sopporto gli innamoramenti collettivi, per cui la passione sfrenata per “il maestro Montersino” mi infastidisce un po’ e mi mette immediatamente sulla difensiva.

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Tempo fa mi è stato regalato il suo libro Le dolci tentazioni, un’edizione piacevole e curata, che raccoglie molte belle ricette di pasticceria secca o più elaborata, con una interessante sezione dedicata agli ingredienti e una alle ricette di base. Ricette sicuramente affidabili e raffinate, che non avrebbero bisogno di etichette particolari per essere promosse dagli amanti della pasticceria.

E quindi non comprendo – e contesto – la volontà di far passare il libro per un testo di pasticceria naturale e salutare, come vorrebbe far credere l’affermazione – riportata in copertina e in più punti del libro – che si tratta di ricette “sane, alleggerite da grassi, zuccheri e carboidrati”.
Via. Ma quando mai?
Dubito che ricette basate essenzialmente su grassi e zuccheri possano essere annoverate tra i cibi salutari. Se poi mi dite che l’essenza della pasticceria è questa, posso anche essere d’accordo, ma non facciamo finta che sia salutare solo per il fatto di usare farine alternative a quella di grano tenero o perché in alcuni casi il burro (gran protagonista) viene sostituito dall’olio o lo zucchero bianco da quello di canna (a questo proposito, ho già spiegato qui che tra i due non c’è alcuna sostanziale differenza in termini nutrizionali).

Insomma, sarà che sono bastian contrario, sarà che a me piacciono i dolci poco carichi, sarà che con il burro non vado d’accordo… ma tra le ricette di Montersino che ne sono poche che farebbero al caso mio.
Detto questo, non voglio essere ingrata: in questo caso ho trovato la mia burrosissima ricetta che, a detta degli appassionati, è davvero buona e dallo spiccato sapore di caramello.
E, ad essere sincera, ne ho pure adocchiata qualcun’altra che potrei fare.
Oddio non è che alla fine verrò colta anche io dalla sindrome Montersino?!? 🙂

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Rispetto alla ricetta originale ho semplicemente sostituito la panna con del latte e al posto dello zucchero di canna grezzo previsto dalla ricetta ho messo quello bianco, cosa che non comporta alcuna differenza se non che il colore ambrato sarà meno spiccato.

FROLLINI AL CARAMELLO DI MONTERSINO

Dose: 40       Tempo di preparazione: 1 ora + mezza giornata di riposo       Tempo di cottura: 10′ + 10′ + 10′

  • 90 gr di zucchero di canna semolato
  • 175 gr di burro
  • 25 ml di panna latte
  • 275 gr di farina 00
  • 50 gr di zucchero muscovado semolato

In un pentolino, fate sciogliere un cucchiaio di zucchero a fuoco bassissimo. Quando inizia ad assumere un colore ambrato aggiungetene un altro e proseguite così fino a farlo caramellare.
Togliete dal fuoco e versatevi il latte bollente (attenti agli schizzi!), poi unite il burro a pezzetti e mescolate energicamente con una forchetta per amalgamarlo. Se dovesse indurirsi troppo rimettetelo un momento sul fuoco non troppo alto, sempre mescolando vigorosamente.
Una volta raffreddato, unitelo in una terrina con la farina setacciata e i restanti 50 gr di zucchero, amalgamate, stendete l’impasto su di un foglio di carta forno (più è basso e meglio è), coprite con pellicola e riponete in frigo per alcune ore.
Togliete l’impasto dal frigo un’oretta prima di usarlo, così che possa ammorbidirsi leggermente. Stendete l’impasto tra due fogli di carta forno in una sfoglia alta circa 5 mm e ritagliate i biscotti con un tagliapasta. Prima di infornare, rimettete in frigo per qualche minuto: la differenza di temperatura permetterà ai biscotti di conservare intatta la forma.
Cuocete a 170° per 10 minuti circa. Io l’ho omesso ma, se volete, potete cospargere con zucchero di canna grezzo prima di infornare; in questo caso è meglio di quello semolato perché ha cristalli più grandi che resisteranno meglio alla cottura.

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CARAMEL COOKIES FROM MONTERSINO

Makes: 40       Preparation time: 1 hour + resting time       Cooking time: 10′ + 10′ + 10′

  • 90 gr white sugar
  • 175 gr butter
  • 25 ml milk
  • 275 gr all purpose flour
  • 50 gr white sugar

In a saucepan, heat over low fire a tablespoon of sugar until melted and golden, then add an other tablespoon.  Go on like this until the 90 gr of sugar are caramelized.
Remove from the fire and pour in the boiling milk (be careful to spurts), then add the diced butter and whisk quickly with a fork to melt it.
When cooled, mix with the sieved flour and the rest of sugar, make a dough and roll it out over parchment paper. Cover with plastic and refrigerate for some hours.
Take the dough out of the fridge an hour before using it, so that it can soften a bit. Roll it out at 5 mm thick and cut your cookies. Put in the refrigerator for some minutes before baking at 170° C/ 340° F for 10 minutes. If you want you can sprinkle with brown sugar before baking.

Visita a Eataly Firenze (e qualche considerazione)

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Il 17 dicembre ha aperto i battenti a Firenze un punto vendita Eataly, catena di ristorazione e distribuzione alimentare di qualità, che si basa sui principi del biologico, del km 0, dello slow food, con l’intento di “democratizzare” l’accesso alla cultura del cibo “sano, pulito e giusto”.

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A sei anni di distanza dalla prima inaugurazione di Eataly, avvenuta a Torino nel 2007, oggi gli italiani sembrano dividersi tra appassionati sostenitori e inveleniti detrattori di questa operazione commerciale. Chi ne loda la bontà, la lungimiranza, l’attenzione per gli aspetti ecologici e sociali del comparto agroalimentare, e chi la addita come speculazione travestita da missione pseudo-umanitaria, condotta con grossolana ignoranza (per esempio, qui).

Io posso raccontarvi quel che ho visto a Firenze.
Situata in via Martelli, a due passi dal Duomo, Eataly occupa i locali della storica libreria Martelli, chiusa due anni fa con grande rimpianto di tutti i fiorentini. Adesso al piano terreno dell’edificio storico si trova la zona destinata alla vendita e alla ristorazione: ci sono una gelateria, il bar Illy con pasticceria (targata Montersino), un forno e un lampredottaio, che propone il panino con il lampredotto, cibo da strada tipicamente fiorentino ancora oggi venduto da furgoncini stanziali in varie zone del centro.

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Tra i prodotti in vendita ce ne sono molti confezionati, di marche famose e di qualità, come la pasta di Gragnano, il cioccolato Venchi o le pastiglie Leone, che difficilmente si trovano altrove, almeno in questo vasto assortimento. I prezzi sono piuttosto alti, ma come in qualsiasi altro posto per prodotti di questo tipo. Credo che sia utile se si cerca qualcosa di particolare, una coccola, un regalo, qualcosa di sfizioso, ma non lo riesco ad immaginare come un luogo in cui fare la spesa quotidiana.

Più interessante, per quanto mi riguarda, è la presenza di farine speciali, di segale, integrali, macinate a pietra, che sono molto difficili da reperire, oppure dalla pasta di nocciole e di pistacchi, ingredienti base per la pasticceria o la panificazione che permettono di ottenere anche in casa prodotti di alta qualità.
Mi piace anche la selezione di legumi dop e igp toscani, come il fagiolo zolfino o quello di Sorano.

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Il reparto di prodotti freschi non è particolarmente fornito, anche se vi ho trovato cose interessanti come il topinambur, le rape nere o varietà di pere e mele locali (i cosiddetti “frutti dimenticati”) che non avevo mai visto in vendita.
Un po’ deludente il piccolo reparto dei formaggi, dove figurano parmigiani con differenti periodi di stagionatura, pecorini locali e con caglio vegetale (per i vegetariani), pecorino romano, bufale e casera. Mi sono detta che forse anche questo dipende dalla filosofia di Eataly: non si possono sempre trovare decine di tipi di formaggio contemporaneamente e forse verrà fatta una rotazione settimanale o mensile per dare spazio a più prodotti.
Ma mi riservo di controllare se è effettivamente così.

Ottima l’idea di uno scaffale frigo con i prodotti leggermente danneggiati o in via di scadenza che vengono venduti a prezzo ridotto per evitare che vadano distrutti: sarebbe bello se anche la grande distribuzione adottasse questa soluzione.

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Pollice verso, invece, per la collocazione di colonne-libreria lungo il percorso di esposizione dei prodotti alimentari. Avere dei libri di pasticceria accanto agli ingredienti per dolci potrà anche essere carino, ma il tempo e le condizioni richieste per sfogliare, valutare e apprezzare un libro (anche se di cucina) sono diverse da quelle per scegliere un pacco di biscotti. Sarà che quando ho sentito parlare di “libreria” dentro al punto vendita di Eataly mi immaginavo qualcosa di diverso, ma questa commistione cibo/libri non mi piace affatto e ho la sensazione che i libri siano stati messi lì come riempitivo, un pretesto per dire che si prosegue la vocazione culturale dello spazio della ex-libreria.

Al mezzanino si trova lo spazio ristorazione, aperto a pranzo e a cena, con stand tematici: pasta, pizza, pesce, carne, formaggi e salumi, verdure.
Al secondo piano, invece, c’è un’osteria/enoteca e due sale dedicate al vino e alle birre italiane artigianali, mentre a gennaio è prevista l’apertura di un ristorante gourmet intitolato a Leonardo Da Vinci.
Al terzo piano, non accessibile al pubblico, c’è una scuola internazionale di cucina, che dovrebbe promuovere la cucina italiana e toscana nel mondo.

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Per quanto riguarda l’intitolazione del punto vendita al Rinascimento, mi è completamente sfuggita. A parte qualche pannello e vaghe citazioni messe lì un po’ a caso, non ho avvertito in alcun modo questo rimando culturale, che quindi immagino essere molto debole e di facciata. Del resto, non poteva essere diversamente. Le sedi intitolate alla divulgazione e diffusione della storia e della cultura fiorentina sono altre, ben più articolate e complesse, e Eataly è bene che si tenga l’aspetto delle cultura gastronomica (nient’affatto semplice) senza voler sconfinare in campi difficilmente praticabili per un’attività commerciale.

Perché, in fondo, di questo si tratta. Non condivido la visione di chi entra qui come in un tempio, né di chi ritiene Farinetti un paladino di principi sociali ed ecologici da tutelare. Eataly è un’operazione commerciale, e in quanto tale è giusto che cerchi di promuoversi, vendersi e punti a fare cassa. Non mi pare immorale.
Detto questo, credo che ci sia comunque un valore nel gestire un’attività commerciale – e quindi creare posti di lavoro – basandosi sulla filosofia di Slow Food (consulente e controllore di Eataly), cercando di valorizzare le piccole imprese, le produzioni locali e tipiche di qualità, documentando e tutelando le tradizioni agroalimentari e promuovendo una cultura del cibo fatta di cura e attenzione.
Che poi questa sia un’operazione pianificata a tavolino e che sia da preferire l’originale – il lampredottaio di strada, il vinaino, l’osteria verace – siamo tutti d’accordo. Peccato che ormai sia chiaro che questi presidi di storia del gusto e della tradizione non hanno vita facile, e a breve rischiano di scomparire, per un processo che non si può arrestare o invertire artificialmente. E allora, secondo me, anche questo è un modo per tutelare saperi e sapori che altrimenti rischiano di finire nel dimenticatoio o di essere schiacciati dall’ingranaggio della produzione di massa, che privilegia la massima resa con il minor costo, spesso in totale spregio della qualità del prodotto.